Fare impresa significa puntare al profitto, ma nei momenti di crisi o di difficoltà economica è legittimo chiedersi quale sia davvero lo scopo dell’imprenditore. Resistere nell’attesa di tempi migliori può sembrare la strada più naturale, ma l’esperienza dimostra che l’immobilismo non paga: occorre interrogarsi sulle azioni da intraprendere per superare le difficoltà e rimettere l’impresa in carreggiata.
Abbiamo approfondito il tema con l’avvocato Giulio Iannotta, che da anni si occupa di diritto civile e bancario, e che ci spiega come l’adozione di modelli organizzativi possa rappresentare una vera ancora di salvezza per le imprese, anche quelle di piccole e medie dimensioni.
Avvocato Iannotta, non basta per un imprenditore rispettare la normativa, curare il brand e acquisire clienti?
No, oggi non basta più. Se così fosse, non si spiegherebbe l’alto numero di ricorsi per fallimenti e altre procedure concorsuali o di esdebitazione, cioè il ricorso a strumenti previsti dal legislatore per aiutare quelle imprese in difficoltà con fisco, previdenza, banche e fornitori.
L’Europa da anni oramai ci chiede di alleggerire il carico giudiziario pendente davanti ai tribunali. Ma nonostante istituti deflattivi, quali la mediazione civile e la negoziazione assistita, sembra che non vi sia un significativo decremento del contenzioso né una velocizzazione dei tempi di definizione dei processi. Se è vero che gli stessi hanno avuto una sensibile riduzione, i contenziosi in ambito commerciale e bancario rimangono comunque elevati.
Il punto è che ci si occupa dei problemi solo quando esplodono. È come un paziente che va dal medico soltanto quando la malattia è conclamata, pur conoscendone cause ed effetti. Ecco perché occorre agire prima. In poche parole, non solo gestire i conflitti, ma prevenirli.
Qual è dunque la soluzione?
La mia esperienza di avvocato che negli anni si è occupato di questioni civilistiche e in particolare di questioni bancarie, mi porta a dire che la vera chiave è introdurre anche nelle piccole e medie imprese quelle metodologie tipiche della grande impresa. Mi riferisco all’adozione dei modelli organizzativi. Non si tratta di un adempimento burocratico, ma di uno strumento di prevenzione e di crescita.
I modelli organizzativi a volte previsti dallo stesso legislatore sono diversi. Un esempio è il modello organizzativo del D.Lgs. 231/2001, che disciplina la responsabilità amministrativa degli enti (aziende, associazioni o fondazioni) per reati commessi da figure apicali o dipendenti nell’interesse o a vantaggio dell’azienda. Questa normativa non è punitiva, ma protettiva. Se l’impresa si è dotata di un modello organizzativo efficace, può andare esente da responsabilità penale.
In quali settori trova più applicazione?
I campi sono molti. Penso all’edilizia, dove spesso il modello organizzativo ex L. 231/2001 231 è requisito per partecipare a gare, o al settore sanitario, in cui sarebbe fondamentale per ridurre i rischi legati all’erogazione delle prestazioni. I tempi sono più che maturi affinché ,specie in quest’ultimo settore, chi opera nell’interesse del pubblico, erogando una prestazione sanitaria lo faccia nell’ambito di sistemi preventivi che privilegino efficienza e metodologie di attenuazione del rischio di eventi dannosi per l’utenza.
Stiamo vivendo una fase in cui la cultura della prevenzione sta crescendo. Lo dimostrano anche iniziative come il corso di alta formazione promosso dalla C.C.I.A.A. Irpinia Sannio a Benevento, in collaborazione con il Consorzio Universitario Promos Ricerche e la Scuola di Governo del Territorio, dedicato proprio ai modelli organizzativi e agli organismi di vigilanza. Ho avuto il piacere di parteciparvi e il messaggio era chiaro.
Lo scopo, così come è emerso dalla direzione e presidenza tenuta dal Prof. Luigi Maria Rocca, è non solo di sensibilizzare le PMI alla prevenzione ma di formare professionisti che a loro volta facciano opera di sensibilizzazione delle imprese sull’argomento.
Lei propone di estendere i modelli organizzativi anche oltre la prevenzione penale. In che senso?
Esatto. Nella mia professione sto cercando di portare alle imprese un concetto più ampio, vale a dire un modello organizzativo aziendale che le aiuti a strutturarsi, anche senza obblighi di legge. L’idea è di trasmettere alle PMI metodiche proprie delle grandi aziende, attraverso quattro pilastri fondamentali:
- revisione e adattamento dei contratti secondo le esigenze dell’impresa;
- monitoraggio dei flussi finanziari e miglioramento del rapporto banca-impresa,
- pianificazione e investimento,
- protezione patrimoniale e aziendale.
Il tutto con una visione preventiva e disciplinata, lontana dall’approccio “improvvisato” che spesso caratterizza i piccoli imprenditori.
E’ chiaro che per fare questo occorre chiedere all’impresa di essere ascoltati come consulenti e di fare un passo in avanti con una buona dose di fiducia nel nuovo. Ma è un passo obbligato perché il risultato dell’impresa non organizzata è nelle aule delle sezioni fallimentari dei tribunali, nelle sezioni specializzate in materia di impresa, nel contenzioso bancario, nelle mediazioni e negoziazioni fallite. Il futuro è nell’applicazione di modelli organizzativi che fungano da volano per l’imprenditore in termini di efficientamento del lavoro ed abbassamento del rischio.
Non rischia di diventare un’ennesima certificazione di qualità?
No, perché non si tratta di un’etichetta formale, ma di un vero sistema. Un’impresa che adotta un modello organizzativo dimostra di essere affidabile, responsabile e sicura. Significa che ha interiorizzato concetti come efficienza, valorizzazione delle risorse umane, abbassamento del rischio. Ed è chiaro che a parità di prodotto o servizio sarà preferibile collaborare con un’impresa di questo tipo.
Inoltre, i modelli favoriscono la collaborazione e servono a colmare requisiti che una impresa non ha per compiere una determinata opera. Si pensi allo schema dell’ATI, associazione temporanea di impresa, ma anche a forme più evolute di cooperazione, anche se ancora poco applicate al mercato, come i contratti di rete o addirittura al GEIE, Gruppo economico di interesse europeo.
Ci fa un esempio di imprenditore che ha saputo valorizzare l’organizzazione?
Nella grande impresa sono tanti. Ma vorrei citare Giorgio Armani, recentemente scomparso. Re Giorgio è un esempio straordinario di come si possa partire dal basso e costruire un impero grazie a intuizione e organizzazione. La sua carriera dimostra che l’organizzazione non è un accessorio, ma il cuore del successo.
Quindi il futuro passa dall’organizzazione?
Assolutamente sì. Siamo solo all’inizio di un grande cambiamento: chi coglierà l’opportunità di introdurre modelli organizzativi, anche semplici, avrà da guadagnare in termini di efficienza e riduzione dei rischi. Chi invece si girerà dall’altra parte rischia isolamento e fragilità.
La storia insegna che i migliori risultati nascono dalla cooperazione e dal lavoro organizzato. Anche un genio ha bisogno di qualcuno che lo ascolti e lo supporti. Per le imprese, il modello organizzativo è la strada per garantire continuità, crescita e fiducia.