Il linguaggio della cronaca. Responsabilità etica di farsi capire come dovere della politica sì ma anche del giornalismo e soprattutto dalle istituzioni preposte al rapporto diretto con il cittadino. La prospettiva di scrittore e magistrato di Gianrico Carofiglio che nel suo “Con parole precise: manuale di autodifesa civile” per Feltrinelli ricorda come l’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano abbia richiamato l’attenzione tra etica professionale e forma linguistica.
A cosa è servito?
“L’Osservatorio ha posto in luce che l’eticità del diritto non riguarda solo la sostanza (le sentenze, i regolamenti) ma anche la forma: la lingua che utilizziamo per decidere, spiegare, comunicare. Se una sentenza è giusta ma incomprensibile, se una regolamentazione è legittima ma criptica, l’effetto è che il cittadino perde fiducia e l’accesso effettivo alla giustizia viene compromesso. Il richiamo è servito — e serve — a rendere visibile questa falla: l’idea che ‘diritto’ non è solo ciò che è scritto, ma ciò che può essere capito e vissuto. Il mio libro riprende questo tema: la chiarezza e l’adeguatezza della forma linguistica sono componenti cruciali della dimensione civile del diritto.”
Dalla politica alla giustizia. Magistrati, avvocati e funzionari pubblici per comunicazioni, regolamenti e sentenze distanti dall’essere compresi dai cittadini. Anche nel giornalismo non si scherza. Dalla regola delle 5 W si è passati alla regola del commento e dell’approccio partigiano all’analisi di qualsiasi cosa. Tutto ciò a cosa serve se, ad esempio, i giornali non li compra più nessuno, i talk non fanno ascolti e molte persone al massimo si informano ‘scrollando’ il telefonino?
“Serve — sì: serve come elemento di messa in crisi e come spunto per riflettere sulla forma dell’informazione. Il fatto che una parte dell’informazione rifletta sempre più una logica ‘scroll & snack’ non deve portarci a rassegnarci, bensì ad essere più vigili su ciò che dobbiamo tutelare: la profondità, la contestualizzazione, il tempo del ragionamento. Il giornalismo che si affida solo al commento partigiano alimenta la polarizzazione e riduce lo spazio del dubbio. Il libro invita a riconoscere che l’informazione è un bene comune: non solo cosa ci viene detto, ma come ci viene detto. Anche se il formato cambia, la responsabilità resta: l’utente, il cittadino, deve essere attrezzato per distinguere, riflettere, decidere. E il giornalismo – dove ancora regge – ha il compito di proporre, non solo di reagire.”
Dibattiti televisivi; nel suo libro suggerisce: “Il punto è non rispondere nel merito di una bugia palese e in malafede”. Anzi aggiunge di neppure rispondere nel merito con dati o fatti incontrovertibili alla “spazzatura informativa”. Come è possibile attuare questa sua strategia comunicativa?
“Attuarla significa cambiare il registro della risposta: invece di inseguire la bugia nel merito — cosa che spesso rafforza la bugia stessa, le dà dignità di dibattito — il metodo consiste nel spostare il contesto, nel denunciare la cornice manipolativa, nel mettere in evidenza il trucco comunicativo. In pratica: non ragionare da ‘contro-bugia’ con dati contro dati, ma far capire che quel discorso non accede al piano del vero dialogo, che è costruito per trarre consenso con trucchi, che reclama la nostra attenzione emotiva più che razionale. È un atto di autodifesa civile: riconoscere la dinamica, smascherarla, uscire dal suo circuito predatorio. È chiaro che non si tratta di rinunciare al merito in assoluto: ma in certe condizioni il merito viene usato come specchietto per le allodole — e la risposta migliore è cambiare canale.”
Il suo rapporto con l’intelligenza artificiale?
“Grande curiosità, sperimentazione, vigilanza. L’intelligenza artificiale può essere strumento potente — per la scrittura, per l’elaborazione del linguaggio, per la diffusione di contenuti, per la stessa creatività — però contiene già gli stessi rischi che denuncio nel libro: banalizzazione, perdita della dimensione critica, amplificazione del rumore. In questo senso serve che l’umano resti al centro: l’uso dell’IA non deve rimpiazzare il pensiero, ma supportarlo. E soprattutto occorre vigilare su come questi strumenti modificano la nostra relazione con la parola, con il significato, con la responsabilità del dire.”