Seguici su:

Misteri di Cronaca Nera

Letto 36087 Volte
Condividi

Alleghe, la lunga scia di sangue: il mistero dei delitti del lago

All’epoca dei primi misteriosi delitti di Alleghe, quelli del 1933, Umberto Giovanni, il figlio illegittimo di Elvira Riva, era vivo? Le due possibili risposte a questa domanda, no e sì, valide entrambe ma opposte, accendono i riflettori su due verità diverse e ugualmente realistiche.
La verità abbinata alla risposta negativa, al no, quella ampiamente dimostrata, conosciuta e confessata, in sede processuale, quella più logica e più facilmente accettabile, narra una storia di orrore, contenente in sé tutti gli elementi necessari per essere raccontata come un suggestivo noir.
L’atmosfera è notevolmente tenebrosa, non mancano gli enigmi da risolvere e i personaggi si mischiano in una trama intrisa di cinismo, sofferenza, eroismo e stolta indifferenza dei più, di quelli che vedono, sanno e non dicono.

Misterioso suicidio di una giovane cameriera:

Siamo ad Alleghe, caratteristico paesino del comprensorio dolomitico, in provincia di Belluno. L’anno è il 1933, esattamente, il 9 maggio del 1933.
La mattina è assolata, ci sono degli anziani seduti al bar, al centro del paese, proprio vicino all’Albergo Centrale, detto Il Centrale, c’è il barbiere, nel suo gabbiotto di legno, poco distante, in prossimità del vicolo la Voi, quello che porta al lago, e c’è Emma De Ventura, la cameriera ai piani del Centrale, che si affaccia da un balcone, sta riordinando una stanza. Tutti la vedono, è una ragazza giovane e carina, qualcuno la sente anche cantare.
Il fidanzato, un camionista di Caprile, un paese lì vicino, è appena andato via, si è fermato a bere un caffè con lei. Nulla di strano. Tutto procede secondo la routine quotidiana. Emma rientra dal balcone e tutti tornano alle proprie faccende.
Passano circa trenta minuti, poi, Adelina Da Tos, figlia dei proprietari del Centrale, Elvira Riva e Fiore Da Tos, boss della famiglia più ricca e potente del paese, esce correndo dall’albergo e dà l’allarme.
Emma si è uccisa, è in una pozza di sangue, su, nella camera numero 6. Si è uccisa per amore. Lo sostengono i datori di lavoro, il parroco e anche il medico condotto, che per primo ha effettuato i rilievi

La bottiglietta con il veleno era chiusa:

Ma Emma non sembrava, a detta di chi l’ha vista quella mattina e dei parenti, particolarmente triste e depressa tanto da togliersi la vita. In quella camera, la numero 6, c’è poi qualcosa di strano, di poco logico.
Stando alla ricostruzione, la ragazza si sarebbe uccisa bevendo, prima, della tintura di iodo che, provocandole poi dolori inimmaginabili, l’avrebbe spinta a farla finita, velocemente, tagliandosi la gola con un rasoio.
La bottiglietta che conteneva il veleno, però, è chiusa e sistemata su un ripiano e il rasoio si trova sul comodino, a sei passi di distanza da dove giace morta Emma.
Ma tutto questo non importa, per le autorità Emma Da Ventura si è suicidata, caso archiviato, chiuso. Ad Alleghe torna così la routine quotidiana.

Un altro cadavere: per le Autorità altro suicidio

Aldo Da Tos, l’altro figlio dei Da Tos, quello che gestisce la macelleria di proprietà, un negozio poco distante dal Centrale, si sposa con una ragazza, Caterina Finazzer, appartenente, anche lei, a una famiglia facoltosa.
Il matrimonio si fa, anche se Caterina sembra poco convinta. La morte di Emma, le voci strane che girano ad Alleghe, il potere dei Da Tos, la mancanza di un vero sentimento per Aldo, insomma, un insieme di cose che a un matrimonio combinato non fanno certo bene.
Comunque, Aldo e Caterina sposi partono per il viaggio di nozze. Sono prima a Roma e poi a Venezia. E qui, nella Laguna veneta, qualcosa accade, i due, infatti, tornano a casa prima del previsto, in fretta e furia, e Caterina è tutt’altro che tranquilla.
Chiama subito la madre, dicendole di venire a prenderla ad Alleghe il giorno dopo. Vuole andare via, ma non ci riesce. Il giorno dopo, infatti, il 4 dicembre 1933, il suo corpo, esanime, galleggia nelle fredde acque dell’imbarcadero.
Un altro suicidio, dicono tutti. Era depressa, soffriva di sonnambulismo ed è caduta, accidentalmente, nel lago. Il cadavere di Caterina, però, presenta dei lividi sul collo che sembrano proprio segni di dita. No, per il medico legale sono solo i primi segni della putrefazione.
Dobbiamo qui ricordare che Caterina è morta da poche ore e le acque in cui è stata ritrovata sono ghiacciate, tanto da ritardare l’inevitabile processo putrefattivo. Non importa, si tratta di un suicidio, questo dichiarano le autorità. E’ un altro caso chiuso, almeno per ora.

Altro omicidio con rapina:

Passano gli anni, è il 18 novembre 1946. Siamo sempre ad Alleghe, ore 02:40, piena notte. I coniugi Del Monego, Luigi, detto Gigio e Luigia, detta la Balena, hanno appena chiuso lo spaccio dell’Enal e stanno tornando a casa con l’incasso, 100.000 lire.
Giunti nel vicolo La Voi, qualcuno li fredda a colpi di pistola. Nel silenzio della notte, gli spari si sentono bene, ma nessuno ci bada, si torna a dormire. La guerra è finita da poco, ci sono parecchie armi in giro, spesso i ragazzi si divertono a sparare per gioco, per spaventare, nulla di più.
Quella notte, però, non si è trattato di uno stupido gioco. Il giorno dopo, nel Vicolo, sono trovati a terra Gigio e la Balena, giacciono a pochi metri di distanza l’uno dall’altra, uccisi a colpi di pistola. Le 100.000 lire sono sparite. Per gli inquirenti non c’è alcun dubbio: omicidio a scopo di rapina a carico d’ignoti. Caso chiuso, forse.

Il misterioso campanile sotto il lago di Alleghe:

Torniamo un attimo indietro, ai primi due omicidi. Negli anni immediatamente successivi ai fattacci del 1933, ad Alleghe arriva un ragazzo di Castelfranco veneto, è un tipo curioso e intelligente, uno che in quel delizioso paesino di montagna ci va in vacanza con gli amici, in bicicletta.
E la sera, poi, nei bar, con gli amici, tra una chiacchiera e l’altra e un bicchiere di vino, comincia a sentire alcune storie strane, che iniziano a incuriosirlo e interessarlo.
Il ragazzo si chiama Sergio Saviane, giornalista e scrittore, queste le sue parole, tratte molti anni dopo, da un’intervista di Alessandro Riva:

“… Nel paese, quando si andava nelle osterie, nei bar, si sentiva, si parlava, però nessuno voleva parlarne … Piano piano si è cominciato a capire che c’era qualcosa di losco. Queste chiacchiere partivano sempre da un misterioso campanile che suonava sotto il lago … Dalle chiacchiere del campanile partivano anche allusioni sulle morti misteriose … Sembrava una storia di fantasmi, però si capiva che c’era qualcosa sotto”.

Le campane che annunciano morti imminenti:

Sotto le acque di Alleghe, in effetti, un campanile c’è, è quello che la frana del 1771 trascinò, con parte della canonica, nelle profondità del lago e che, secondo la leggenda, con il rintocco delle sue campane sommerse annuncia la morte imminente di qualcuno.
Le chiacchiere sul campanile, quelle che Saviane sente, alludono alle morti di Emma e Caterina, avvenute proprio in quegli anni, quando lui è ancora un ragazzo e ad Alleghe ci va in bicicletta. Continua Saviane:

“… Andavamo ad Alleghe anche negli anni successivi, ecco, siamo già arrivati quasi alla vigilia di questi fatti (quelli del 1946) e, finalmente, si è capito che lì (ad Alleghe) c’erano dei morti, sì, dicevano che, effettivamente, tanti anni fa, è morto, è stata ammazzata una cameriera e da lì io sono partito”.

Sergio Saviane è a Castelfranco veneto quando, nel novembre del 1946, legge sui giornali della morte dei coniugi Del Monego:

“… Mi agito immediatamente, perché Luigi e Gigia Del Monego erano miei amici, cari amici. … Alla sera, Gigio veniva al Polo Nord, che era l’alberghetto di Alleghe dove abitavo io, si giocava a carte e lui beveva molto e lo accompagnavo a casa. Quando arrivavamo davanti al Centrale, lui diceva – Questi non hanno la coscienza pulita, hanno la coscienza sporca –“. Saviane continua:

“… Si vedeva che era terrorizzato … Ho pensato che c’era un collegamento con le morti precedenti che, allora, era tutto vero quello che si sapeva e che si sentiva dire … Che c’erano questi delitti precedenti”.

Il giornalista che indaga sulle morti sospette di Alleghe:

Le chiacchiere della gente, quindi, parlano di delitti, non di suicidi. Con il tempo, Sergio Saviane si convince che ci sia un possibile collegamento tra le morti del 1933 e quelle del 1946.
Nei primi anni del 1950, Saviane è a Roma, lavora come giornalista al settimanale Il Lavoro Illustrato. I misteri di Alleghe gli girano sempre in testa e ne parla al suo capo redattore, Pasquale Festa Campanile. Insieme concordano che la storia di Alleghe merita un’inchiesta approfondita.
Nel 1952, Saviane torna ad Alleghe e comincia a indagare. Parla con i suoi amici alleghesi, lì conosce bene tutti, parla anche con Aldo Da Tos, ma trova un clima di terrore, come dice lui, che produce molta omertà e poche risposte.
Tra quei tutti che non parlano, però, qualcuno, come il barbiere che vide Emma sul balcone del Centrale, la stessa mattina che fu poi ritrovata morta, lo incoraggia a scrivere, a raccontare, a non demordere. Qualcuno che forse vorrebbe parlare, ma non ci riesce.

Una relazione tra i quattro delitti di Alleghe:

Per Saviane, probabilmente, questo sprone è come una valida risposta. Continua la sua inchiesta e alla fine, nel 1952, scrive il suo articolo, pubblicato su Il Lavoro Illustrato con il titolo: La Montelepre del Nord (titolo ironico, riferito alla Montelepre siciliana del bandito Giuliano). Subito, come riferisce Saviane:

“… Mi scrive il parroco, dicendo che sono, che l’ho tradito … Tradito? Io sono andato da lui a chiedere dei delitti e lui non mi ha raccontato niente”.

Nell’articolo i quattro delitti di Alleghe sono messi in relazione e si insinua il sospetto che dietro di tutti ci sia un’unica mano. Nel dicembre del 1952, Sergio Saviane è citato in giudizio, querelato dai proprietari del Centrale, Aldo Da Tos e Pietro De Biasio che, pur non essendo stati nominati nell’articolo, si sentono ugualmente chiamati in causa.
Il processo va male, i testimoni di Saviane non si presentano e, se lo fanno, testimoniano contro. Il giornalista, dunque, non ha scritto la verità, per lui, il reato è di diffamazione a mezzo stampa, otto mesi con la condizionale.

Una nuova verità sui morti di Alleghe:

Sembra tutto chiarito e tornato al punto di partenza. Abbiamo due suicidi nel 1933 e due omicidi a scopo di rapina nel 1946. Sembra, ma non è così.
Ezio Cesca, brigadiere dei carabinieri ad Auronzo, ha letto l’articolo sulla Montelepre del Nord e anche il libro che Saviane ha scritto in seguito sulla vicenda: I misteri di Alleghe (1953).
Cesca ha dei dubbi, quelle le morti misteriose, la teoria di Saviane sul possibile collegamento tra i fatti criminosi lo spingono a parlare con il suo superiore, il maresciallo Domenico Uda, ottenendo da questo il permesso per avviare un’indagine.
Il brigadiere arriva così ad Alleghe, finge di essere un giovane di passaggio e trova lavoro come operaio. La sera frequenta le osterie, si fa degli amici, ascolta le storie e le leggende che si raccontano in giro e ogni tanto pone domande. Tra una chiacchiera e l’altra, inizia a saltare fuori qualcosa.
I Del Monego sarebbero stati uccisi per qualcosa che avevano visto e, sempre da quelle chiacchiere, salta fuori pure un nome: Giuseppe Gasperin.

Il muro dell’omertà inizia a sgretolarsi:

Cesca allora diventa subito amico di questo, i due bevono insieme, entrano in confidenza, tanto che Gasperin arriva a confidargli una cosa inaspettata. In vicolo La Voi abita una signora anziana che sa sui delitti avvenuti la notte del 1946.
La signora è Corona Valt. Il muro di omertà comincia a sgretolarsi sotto dei colpi lenti ma precisi. Per arrivare alla signora Valt, Cesca si fidanza con la nipote, diventando così uno di casa.
Passa ancora un po’ di tempo, fino a quando l’anziana donna gli confida un segreto: la notte del 18 novembre 1946, la notte in cui furono assassinati i Del Monego, lei ha visto tre persone nel Vicolo, due sono scappate per i campi e non saprebbe riconoscerle, una però, la terza, è passata sotto la sua finestra, era Bepin Boa, alias, Giuseppe Gasperin. Ci siamo!
Cesca getta l’ultima esca, sempre sotto mentite spoglie, confida a Gasperin di un lavoretto losco che vorrebbe fare, servono, però, uomini che non abbiano paura di sparare. Per Gasperin non ci sono problemi, lui, dice, ha già sparato e ucciso.

I nomi dei veri responsabili dei delitti:

Quanto ammesso da Gasperin basta per convocarlo in caserma con una scusa e qui sarà arrestato e interrogato. Intanto il brigadiere Cesca si è tolto i panni del giovane di passaggio, rivelandosi per quello che è.
Dall’interrogatorio di Gasperin, finalmente, escono i nomi di tutti i veri responsabili dei delitti di Alleghe. Pietro de Biasio, il marito di Adelina, e Aldo da Tos sono subito arrestati, è il 1958.
A distanza di pochi mesi, in carcere ci finisce anche Adelina Da Tos; è lei che ha ucciso Emma De Ventura per gelosia, sostiene, tagliandole la gola. Caterina Finazzer, la moglie di Aldo, è stata invece strangolata da Pietro De Biasio, con l’aiuto dei fratelli Da Tos.
Quel giorno a Venezia, durante il viaggio di nozze, il marito le aveva confidato dell’omicidio di Emma, la cameriera, e lei non aveva reagito bene, dando segni di paura che avrebbero potuto attirare l’attenzione sui fatti commessi, così il clan del Centrale, i Da Tos, decisero di ‘toglierla dalle spese’.
I Del Monego, poi, quella notte del 4 dicembre 1933, avevano visto Aldo portare in spalla il corpo della moglie morta verso il lago. Dopo tredici anni, forse, avevano deciso di parlare o chissà cosa, comunque, per sicurezza, anche loro dovevano essere eliminati.
L’agguato in vicolo La Voi lo fecero Aldo Da Tos, Pietro De Biasio e Giuseppe Gasperin, quello che non aveva paura di sparare.

Il filo conduttore dei quattro delitti:

E’ qui che va ripetuta la domanda iniziale: all’epoca dei primi delitti di Alleghe, Umberto Giovanni era vivo? Nella versione sostenuta da Sergio Saviane, la risposta è no.
Umberto Giovanni è stato ucciso per primo ed è proprio la sua morte che spiega tutti gli altri delitti. Quando Elvira Riva, la proprietaria del Centrale e di altri immobili in tutta Alleghe, aveva preso Fiore Da Tos come marito, un bracciante con pochi soldi in tasca e senza futuro, era incinta di Umberto Giovanni e più vecchia del consorte di undici anni.
Fiore non era il padre del bambino e di quel figlio illegittimo non ne voleva sapere. Così, Elvira andò a partorire a Mirano, dove era nata, lasciando poi il bimbo a Venezia, da una conoscente, affinché lo allevasse a sue spese.
Divenuto grande, questo figlio illegittimo, sarebbe giunto ad Alleghe per reclamare la sua parte di eredità. La cosa non fu gradita e il clan del Centrale decise di tagliare anche lui dalle spese.
Casualmente, Emma De Ventura scoprì poi il corpo del giovane nelle cantine dell’albergo e per questo fu uccisa, perché non parlasse. Identica sorte toccò a Caterina Finazzer e poi ai Del Monego.

I tanti libri sui delitti di Alleghe:

Però, il corpo di Umberto Giovanni, che secondo alcune testimonianze sarebbe stato fatto a pezzi e mischiato con la carne di scarto della macelleria gestita da Aldo Da Tos, non fu mai trovato.
Due giornalisti di Padova, poi, indagando sull’esistenza di questo figlio illegittimo, arrivarono a sostenere che fosse ancora in vita all’epoca dei fatti. A Mirano, il paese natale di Elvira Riva, c’era, in effetti, una persona che sosteneva di essere un trovatello in contatti amichevoli con i Da Tos ma, al momento di ufficializzare questa cosa, il trovatello non volle fare ammissioni e si tirò indietro.
Senza Umberto Giovanni morto nel 1933 la prima verità, quella soprascritta, potrebbe vacillare un po’. In un libro successivo a quello di Saviane, I segreti del lago (2001), l’autore Pietro Ruo, partendo proprio dalla possibile esistenza in vita del figlio di Elvira Riva all’epoca dei delitti di Alleghe e rispondendo quindi con un sì alla domanda iniziale, sostiene che i moventi per incolpare i Da Tos sono insufficienti.
E c’è poi un altro libro ancora, di Toni Sirena, La montagna assassina. Innocenti e colpevoli dei ‘delitti di Alleghe’ (2010), in cui si legge che i due processi sui delitti di Alleghe avrebbero potuto chiudersi in modo diverso.

Processo e sentenze sui quattro delitti:

Sirena scrive di errori accaduti nel corso delle indagini, come la sostituzione dell’arma che uccise i coniugi Del Monego, e di analisi poco approfondite e sbagliate.
Secondo Sirena il colpevole dei due omicidi nel vicolo La Voi è un altro, un uomo di nome Verocai, assolto dai giudici sulla base degli atti a disposizione.
La sentenza, inoltre, sarebbe fondata sulle sole confessioni degli imputati, poi ritrattate, estorte attraverso torture. I carabinieri negarono di queste torture e i giudici non accolsero le ritrattazioni degli imputati.
L’8 giugno 1960, dopo un processo durato sei mesi, con 33 udienze, la Corte d’Assise di Belluno, presieduta dal giudice Mario Alborghetti, riconosce i fratelli Aldo e Adelina Da Tos, con Pietro De Biasio, colpevoli, condannandoli all’ergastolo.
Aldo e Pietro sono puniti per la morte di Carolina Finazzer e dei coniugi Del Monego, Adelina per il solo omicidio Finazzer.

I colpevoli in carcere:

Nessun colpevole per l’omicidio di Emma De Ventura, perché caduto in prescrizione. Trent’anni di reclusione, invece, per Giuseppe Gasperin, di cui sei condonati per aver contribuito, con la sua confessione, ad incastrare i membri del clan del Centrale.
Nel 1964, a Venezia, durante il processo d’appello, anche i Da Tos e De Biasio confessarono di aver partecipato agli omicidi, proposero dei ricorsi che la Corte di Cassazione respinse, confermando, il 4 febbraio dello stesso anno, la sentenza di primo grado: ergastolo.
Aldo Da Tos e Pietro De Biasio morirono in carcere, mentre Adelina Da Tos, a 73 anni, ricevette la grazia dall’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini; era l’inizio del 1981.

Pubblicato in Misteri di Cronaca Nera

Scritto da

Potrebbe interessarti

Lascia un commento

Seguici su: