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Capacità di intendere e di volere

Capacità di intendere e di volere nei casi di cronaca

La narrazione mediatica dei fatti di cronaca nera è quasi inevitabilmente intrecciata con il complesso tema dell’imputabilità e della capacità di intendere e di volere dell’autore di un reato.

Tale binomio costituisce uno dei pilastri fondamentali del diritto penale italiano, poiché stabilisce la condizione essenziale affinché un individuo possa essere chiamato a rispondere penalmente delle proprie azioni. Il dibattito pubblico, alimentato dalla necessità di comprendere l’irrazionalità del crimine, si scontra spesso con la rigorosa disciplina codicistica che impone un’analisi tecnico-scientifica dello stato mentale dell’imputato al momento del fatto.

Il principio di imputabilità nel Codice Penale

L’intera disciplina sulla responsabilità penale poggia sul principio stabilito dall’Art. 85 del Codice Penale italiano, il quale recita: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere“. L’imputabilità non è quindi semplicemente la possibilità di attribuire un fatto a un soggetto, ma la capacità di essere assoggettato a pena.

La capacità di intendere si riferisce all’attitudine del soggetto a comprendere il significato e il valore delle proprie azioni nel contesto sociale e, in particolare, la loro illiceità penale. È la capacità di discernimento e di valutazione critica della realtà esterna e del proprio comportamento.

La capacità di volere, invece, è l’idoneità dell’individuo a controllare i propri impulsi e a autodeterminarsi, scegliendo liberamente tra condotte diverse, conformando così il proprio agire al precetto normativo. Per essere ritenuto imputabile, il soggetto deve possedere entrambe le capacità al momento della commissione del reato.

Vizio totale e parziale di mente: l’infermità rilevante

Il Codice Penale disciplina le cause che possono escludere o diminuire l’imputabilità, ponendo al centro l’infermità mentale.

L’Art. 88 c.p. definisce il vizio totale di mente stabilendo che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere completamente la capacità d’intendere o di volere. In tal caso, il soggetto viene prosciolto per mancanza di imputabilità.

Tuttavia, se l’individuo è ritenuto socialmente pericoloso (secondo l’Art. 203 c.p.), non viene semplicemente rilasciato, ma gli viene applicata una misura di sicurezza, come ad esempio il ricovero in una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS), che ha sostituito i precedenti Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG).

L’Art. 89 c.p. contempla il vizio parziale di mente (o semi-infermità). In questo caso, l’infermità è tale da far scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere. Il seminfermo di mente risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita. Come intuibile, la distinzione è fondamentale e implica un giudizio non solo qualitativo, ma anche quantitativo sull’alterazione mentale e sulla sua incidenza concreta sulla condotta criminosa.

Il ruolo della perizia psichiatrica nella cronaca giudiziaria

Nei casi di cronaca nera di maggiore risonanza, l’accertamento dell’imputabilità richiede quasi sempre il ricorso alla perizia psichiatrica disposta dal giudice. La perizia è un mezzo di prova complesso che richiede competenze tecniche, scientifiche e artistiche per valutare lo stato di mente dell’imputato al momento del reato, soprattutto nei casi di omicidio.

Il perito psichiatra, nominato dal giudice, ha il compito di esaminare l’imputato, analizzare la sua storia clinica e personale e, soprattutto, stabilire l’esistenza di un nesso causale tra l’eventuale patologia psichica e la concreta incidenza sulla capacità di intendere e di volere al momento del fatto. La giurisprudenza ha progressivamente ampliato il concetto di “infermità” fino a ricomprendere anche i gravi disturbi della personalità e le turbe psichiche non strettamente catalogabili in senso clinico tradizionale, purché siano di tale intensità, consistenza e gravità da incidere concretamente sulle capacità volitive o intellettive.

La valutazione non si basa solo sull’esistenza di una diagnosi, ma sull’effetto che quella specifica condizione morbosa ha avuto sulla condotta dell’agente nel frangente criminoso.

Imputabilità e percezione collettiva del dolo

L’esito delle perizie psichiatriche in casi di cronaca nera spesso genera un acceso dibattito pubblico, specialmente quando un soggetto autore di un crimine efferato viene prosciolto per vizio totale di mente. La percezione collettiva è talvolta portata a confondere l’esclusione dell’imputabilità con un’assenza di responsabilità o impunità, ignorando la complessa struttura del diritto penale.

È fondamentale sottolineare che l’assenza di imputabilità per vizio totale di mente non equivale a un’assenza di pericolosità. Anzi, il sistema penale prevede che il soggetto non imputabile, ma socialmente pericoloso, non venga punito con la pena detentiva ordinaria (che presuppone la colpevolezza), ma sia sottoposto a una misura di sicurezza, che ha finalità di cura e di prevenzione sociale.

Il sistema, pur riconoscendo l’incapacità dell’individuo a rispondere pienamente del reato, tutela la collettività e mira al recupero, se possibile, del soggetto. La cronaca nera, nel riportare tali vicende, evidenzia costantemente la tensione tra la necessità di una risposta punitiva e il principio di legalità che impone di punire solo chi è pienamente in grado di comprendere e volere le proprie azioni.

Pierfrancesco Palattella

Giornalista, Web Writer, Seo copy, fondatore di La Vera Cronaca