Si dice che ancora oggi chi si trovi a passare per Via Bagnera, la strada più stretta di Milano, in pieno centro, tra la Basilica di Sant’Ambrogio e il Duomo, venga colto da un’improvvisa ventata gelida che gli entra nelle ossa. Secondo un’antica leggenda meneghina non sarebbe il vento che in quello strettissimo ed oscuro corridoio a cielo aperto lungo 150 passi si incanala freddo e tumultuoso, ma l’abbraccio mortale che riserva ai passanti il fantasma di un uomo che in una cantina di quel budello usava seppellire le sue vittime: Antonio Boggia, Il Mostro della Stretta Bagnera.
In questo articolo parliamo di:
- 1 Una storia dell’800
- 2 Antonio Boggia, primo serial killer della storia italiana
- 3 1849, Angelo Serafino Ribbone
- 4 Giovanni Maurier, figlio della Perrocchio
- 5 1850, il mediatore in granaglie Giuseppe Marchesotti
- 6 1851: Pietro Meazza, il Bauscia
- 7 Giovannino Maurier e la ricerca della anziana madre
- 8 L’arresto di Antonio Boggia
- 9 1851: Giovanni Comi e l’aggressione nella cantina del Boggia
- 10 La prima confessione di Boggia
- 11 Prime perquisizioni alla Stretta Bagnara
- 12 Inizia il processo per il Boggia
- 13 Processo mediatico ante litteram
- 14 Condannato all’impiccagione: l’ultima della Storia
Una storia dell’800
È una storia vecchia, ottocentesca, che ha come sfondo una Milano ben diversa da quella di oggi. È la Milano delle cinque giornate, che sotto al dominio asburgico si fa fulcro del Risorgimento, la Milano dell’Opera Lirica, austera ma vivace, investita dall’avanzata impetuosa dell’industria a discapito dell’artigianato, una città che comincia ad accogliere le prime ondate migratorie dei contadini del Lombardo – Veneto ma anche di qualche meridionale in cerca di fortuna. Per citare Lucio Dalla è il periodo in cui la città comincia ad essere la Milano a portata di mano, ti fa una domanda in tedesco e ti risponde in siciliano. Non sono ancora i tempi di Milan – Benfica, ma è già una Milano che fatica.
Antonio Boggia, primo serial killer della storia italiana
Al suo arrivo a Milano da Urio, paese sul lago di Como ove era nato nel 1799, Antonio Boggia è semplicemente un laghée in cerca di fortuna e in fuga da qualche problema con la Giustizia. Nel 1824, infatti, per via di una denuncia a seguito di alcune cambiali non pagate, era riparato in Piemonte, allora Regno di Sardegna, laddove era stato processato per rissa e tentato omicidio. Approfittando di una rivolta nel carcere in cui era detenuto fugge e si stabilisce nella città della Madunina, da cui si congederà dentro una cassa da morto, con in tasca i tristi titoli di ultimo impiccato di Milano nonché di primo serial killer italiano.
1860, la scomparsa di Ester Maria Perrocchio
Quando nel 1860 il figlio di Ester Maria Perrocchio, ricca Sciura proprietaria di diversi immobili in città, denuncia la scomparsa della madre, Antonio Boggia è passato per innumerevoli peripezie e mestieri: piccolo imprenditore edile, muratore, carpentiere, fochista al Comando Militare austriaco, devoto ed esemplare parrocchiano della Chiesa di San Giorgio al Palazzo, confidente dei giovani della strada in cerca dei consigli di un uomo più esperto.
È affidabile e rispettabile, Antonio, alto, sempre elegante, rigorosamente stretto in un tabarro nero; affabile con tutti, sebbene le basette brizzolate e le sopracciglia ben più folte del normale incornicino uno sguardo che improvvisamente da profondo può farsi torvo, che è abile a stemperare con una risata da ganassa. Non sembra uno del popolo, el Sciur Togn, perché non vuole sembrarlo.
Nonostante l’apparenza da bravo cristiano, che parla poco di politica e sa tenere buoni rapporti anche coi tedesc, nel momento in cui il Giudice Giulio Cesare Crivelli prende in carico la denuncia del figlio della Perrocchio il Boggia ha già ucciso quattro volte, dimostrando anche una certa abilità a celare le sue malefatte, aiutato, va detto, dal clima di quegli anni tumultuosi, quando fra una rivolta e un reato politico se qualcuno spariva dalla circolazione la cosa non faceva poi così notizia. Era appena successo il proverbiale quarantotto quando il Boggia fece fuori la sua prima vittima.
1849, Angelo Serafino Ribbone
Nel 1849, Angelo Serafino Ribbone, che quasi venti anni prima, ancora ragazzino, era giunto a Milano dal varesotto trovando impiego come muratore proprio nella piccola impresa del Togn, varca come ogni mattino il portone di Palazzo Cusani, sede del Comando Militare austriaco presso cui presta servizio come assistente fochista. Nel giro di pochi minuti viene a scoprire che il suo superiore è morto nella notte e che sarà lui ad ereditarne il ruolo e il comodo e gratuito appartamento all’interno del Palazzo.
La sincera commozione per la perdita del capo a cui era sinceramente affezionato fa presto spazio all’euforia. Non solo un’inattesa promozione e guadagni raddoppiati, ma soprattutto la possibilità di dar corpo al sogno che un uomo, all’alba dei trentacinque, deve giocoforza realizzare, se no è troppo tardi: prendere moglie. La fortunata l’ha bella che individuata, sono anni che ha puntato la figlia di un commerciante di Contrada Lupa.
In diciannove anni di lavoro a Milano, il Ribbone, era stato capace, a costo delle fantozziane sanguinose economie, di mettere da parte 1400 svanziche, proprio quel che ci vuole per proporsi a un futuro suocero da pretendente degno di questo nome. Il commerciante lo aveva oltretutto in simpatia da anni, e lui lo sapeva. Mentre si veste alla maniera più elegante possibile, stretto nel suo tabarro nero, il suo cuore si gonfia di speranza; ma sì, il commerciante, sua figlia, gliel’avrebbe data. Non si sbagliava, il Ribbone, sulla simpatia che quello provava per lui, e pensava il vero anche quando era certo che lui, la figlia, gliel’avrebbe data. Il punto è che la ragazza non ne vuole sapere.
Il raporto con il Boggia
Il padre sì, che sarebbe stato felice, ma si sa, le ragazze non son più quelle di un tempo (la frase sarà stata in voga anche a metà ottocento), vogliono fare come piace a loro, non è più il padre che decide a chi ammogliarle. E meno male.
Non glielo ha certo detto chiaro e tondo, il pover’uomo, ma Ribbone lo sa che il problema è il naso. Dove pensava di andare con una simile protuberanza da Cyrano? Lasciato il negozio di quello che mai sarebbe stato suo suocero, Ribbone se ne vaga sconsolato, e chissà se per caso o meno, si ritrova dalle parti del Siur Togn.
Nonostante avessero lavorato insieme poco o niente i due erano rimasti legati; il Boggia era un po’ un padre putativo per il Ribbone, e i due non avevano mai smesso di vedersi. Quando lo vede sbucare all’angolo della Stretta Bagnera triste e intabarrato che quella proboscide che si ritrova a centro faccia sembra più ingombrante del solito lo capisce subito, il suo vecchio principale, che il ragazzo è giù di corda.
Còssa gh’è?
Angelo Serafino fa un po’ come fanno gli adolescenti quando non hanno voglia di parlare, tira su le spalle, bofonchia, mastica mezze parole. Ma al Siur Togn non sa resistere, e dopo un po’ gli racconta tutto.
Una dote da 1400 svanziche
Fag su la crus, gli suggerisce quello, a ragione. Non v’è che da metterci una croce sopra, di ragazze belle come e più di quella è pieno il mondo.
Angelo racconta anche della dote, delle 1400 svanziche che aveva faticosamente risparmiato e che, ora, sono custodite da una sua zia, in provincia di Varese. Il Boggia gli chiede se gli sia dato di volta il cervello. Sì, d’accordo, sarà pure tua zia ma i quattrini sono i tuoi, si sa che l’occasione fa l’uomo (o la donna) ladro. E poi è anche un fatto di comodità, un domani trovi una bella gallina da portare in giro, magari da sposare e ti devi andare a raccattare le svanziche dalla zia? Ribbone tutto sommato è anche d’accordo, ma come fa, adesso, a lasciare Milano, partire, star fuori tre giorni, che quello ci vuole, nel 1849 per andare e tornare da Varese?
La procura firmata a Boggia
E che problema c’è? Ci pensa il Boggia. Eh, ma non è mica così facile, il nipote si era raccomandato alla zia, che le svanziche le avrebbe dovute consegnare solo a lui e a nessun altro. Così è che Antonio Boggia, dopo alcuni consulti con uomini di legge con la “L” rigorosamente minuscola, accerta che la soluzione c’è: basta firmare una procura. Il Ribbone se ne vada pure a Lodi, che si lavora, si guadagna bene e si sta lontani dai tumulti, a recuperare i soldi ci penserà lui. Anzi, già che c’è lo rimpiazza anche al Comando Militare, che col fuoco ci sa fare.
Giovanni Maurier, figlio della Perrocchio
Giovanni Maurier, figlio della Perrocchio, non vedeva la madre da un po’. Non solo perché si era trasferito non proprio nelle vicinanze e attraversare Milano in pieni moti risorgimentali poteva essere rischioso, ma anche perché i rapporti fra suocera e nuora erano tutt’altro che cordiali, e la moglie non è che avesse tutta ‘sta voglia di fare visita a quella vecchia stramba che nel condominio di Via di Santa Marta in cui abitava e di cui era proprietaria aveva impiantato una sorta di zoo cittadino, quaranta gatti, oche, galline, bestie varie e puzzo da levare il fiato.
Quando finalmente si decide ad andare a trovarla da solo si sente rispondere dalla portinaia che la Sciura non c’era, stava a Como da diversi giorni. Ben strano, pensa il Maurier. Cioè, sì, la madre a Como ci andava, ma una volta l’anno, e in giornata, oltretutto non era suo costume stare via a lungo, doveva gestire gli affari del palazzo e riscuotere gli affitti. Se è per quello non è un problema, gli dicono, la Sciura Ester ripone la massima fiducia nel suo nuovo capomastro, che ha conosciuto in chiesa, a San Giorgio al Palazzo, dove lei va a raccomandarsi quotidianamente l’anima al Signore e lui è fra i più attivi nel dare una mano quando serva, ad esempio durante i funerali. Nuovo capomastro? E perché l’avrebbe cambiato? E poi, come si chiama questo devoto parrocchiano.
Antonio Boggia, il nuovo campomastro
È l’Antonio Boggia. Brav’uomo davvero, el Siur Togn, che poveretto è vedovo con due figli, anche se ormai son grandi. Certo, quando siede all’osteria ci da’ dentro col vino, ma lo porta bene, ciosca se lo porta bene. Esagera col vino ogni tanto, ma lo regge, caspita se lo regge.
Il Maurier stenta a credere che la madre possa accordare a chicchessia la massima fiducia, e poi il fatto che qualcuno possa andare a riscuotere gli affitti in vece sua gli sembra proprio impossibile, anche da un punto di vista legale. Ma va là, è tutto in regola, sua madre gli ha firmato una procura.
1850, il mediatore in granaglie Giuseppe Marchesotti
Nel 1850 il mediatore in granaglie Giuseppe Marchesotti si gode gli affari e la vita. Sposato ma separato di fatto dalla moglie, la quale c’è da credere non gradisse l’abitudine del marito di correre la cavallina – ossia di dedicarsi con encomiabile sforzo alla frequentazione di bacco, tabacco e, soprattutto, Venere – passa le giornate e le serate fra aste e cafè chantant.
Una mattina si trova ad un’asta pubblica, e combatte il freddo pungente avvolto in una stiriana di panno marrone. Come è facile immaginare l’incanto è affollato di mediatori, commercianti e appartenenti alla cosiddetta compagnia della buona morte. Questi erano coloro che avevano il compito, sotto pagamento di una stecca, di partecipare ai rilanci non col fine di acquistare, bensì con quello di far salire il più possibile i prezzi, scoraggiando i concorrenti che non facevano parte del solito giro.
Tra questi il Marchesotti ne nota uno in cui già più volte gli era capitato di imbattersi nell’esercizio del suo mestiere: un tipo alto, distinto, coi capelli bianchi e le fedine grigie. Si proteggeva dal freddo stretto in un elegante tabarro nero.
È noto come vadano in quell’ambiente certe cose, fra gente che si sa ma non si conosce: una presa di tabacco offerta, due battute, il commento su qualche asta passata e tel chi si combina l’affare.
L’asta pubblica e un affare da 4000 svanziche
L’uomo alto blandisce il Marchesotti, lui sa, gli spiega, quale sia il suo livello, il suo credito, e proprio per questo pensava di proporgli di partecipare ad un’asta privata, per pochi, che non bisogna parlarne in giro altrimenti si diffonde la voce fra i mediatori e te saludi. Per chiudere l’affare ci vogliono 4000 svanziche, ma il guadagno previsto è da leccarsi i baffi. L’asta si terrà due giorni dopo, a mezzogiorno. Il Marchesotti ci pensa. Lui 4000 svanziche non ce l’ha, ma col credito di cui gode presso mercanti e commercianti non farebbe fatica a farsele prestare, oltretutto l’affare sembra proprio goloso. Si prende ventiquattro ore per cercare il denaro, e fissa appuntamento con l’uomo dal tabarro nero per le dieci del giorno successivo, all’Osteria dei Muratori.
Quando si trovano il mediatore ha deciso, parteciperà all’asta. I soldi li trova. Si salutano dandosi appuntamento per il giorno dopo, 15 gennaio, alla stessa ora.
Quel sabato mattina Milano è imbiancata da una fitta coltre di neve, Marchesotti rassicura l’uomo mostrando il denaro e i due brindano all’affare bevendo un assenzio in quella bettola frequentata da muratori e manovali immigrati, che spengono nel vino la nostalgia di casa.
Celebrato l’accordo si avviano verso Via Morigi, dove sta il palazzo in cui si terrà l’asta. La passeggiata è lunga e, mentre transitano per la Stretta Bagnera, l’uomo dal tabarro nero spiega al suo nuovo partner d’affari che lui proprio lì ha un magazzino e ci tiene dentro due cavalletti di legno per ponti di fabbrica, che non sa come fare a piazzarli, ma magari il Marchesotti con le sue conoscenze… Se volesse vederli, è roba d’un minuto. Ma sì, andem.
La sparizione del Marchesotti
La sera della domenica, l’uomo dal tabarro nero, che fosse il Boggia è chiaro al lettore attento, si ripresenta in Osteria in cerca del Marchesotti, per ritirare la sua stecca: il 20%. Il mediatore non c’è e il Boggia si stranisce, guarda te se quello lo vuol fregare. Chiede dove abiti, e gli spiegano che da quando la moglie lo ha cacciato di casa vive con la madre, poco distante. Si presenta all’uscio della vecia e quella gli dice che il figlio non c’è, ma che se lo cerca per ricevere un pagamento che stia pure tranquillo, di lui nessuno si è mai lamentato. Ha nevicato due giorni di fila, sarà rimasto bloccato. Vedrà che si farà vivo.
Otto giorni dopo anche il fratello del Marchesotti e due suoi cari amici sono in allarme, l’assenza è troppo prolungata, anche dalla ex moglie non si è fatto vedere. Si incontrano all’Osteria e cercano di capire se qualcuno sa qualcosa. Seduto ad un tavolo c’è il Boggia, che da giorni tende imboscate al mediatore per farsi pagare, scatta in piedi e dice che allora è vero quel che raccontano tutti, che è scappato perché è pieno di debiti e non vuol pagare. I tre gli chiedono chi sia e che come si permetta a raccontare simili fandonie, ma quello non smette: Si sa, che quando uno corre dietro alle donne… La situazione si scalda subito, il fratello del Marchesotti non tollera che venga messo in dubbio l’onore del congiunto e il muratore allora glielo dice chiaro e tondo, che il mediatore gli deve venti marenghi d’oro.
Ci manca poco che si prendano a coltellate, l’oste li caccia e il Boggia si dà rocambolescamente alla fuga, piantando in asso i tre che gli volevano far la pelle. Nei giorni successivi all’Ufficio di Polizia di Via degli Andegari si farà spesso il nome di Giuseppe Marchesotti: il Boggia lo denuncia per insolvenza fraudolenta, la moglie si presenta chiedendo all’autorità di cercarlo perché è sparito e non le manda il mantenimento dei figli, e pure un certo Castigliani, mercante, presenta querela perché il mediatore si è fatto prestare da lui 4000 svanziche per poi farsi uccel di bosco.
1851: Pietro Meazza, il Bauscia
È il marzo del 1851 quando all’Osteria Trè scagnn, dietro Porta Ticinese, il fumista Luigi Binda presenta il fabbro Pietro Meazza ad un amico che bazzica la zona e si industria in mille mestieri e scappatoie, alto e distinto ma già scaldato dal vino tanto da essersi tolto il suo tabarro nero. Al Meazza lo chiamano Bauscia, che se nel milanese dei nostri tempi sta più o meno per spaccone, nella accezione originale sintetizza il concetto di uomo che sputa quando parla.
Se il problema fosse solo che quando parla lava la faccia alla gente, parafrasando Giacomo Poretti, staremmo un pezzo avanti. Il Meazza è per di più grasso, malvestito, privo di alcuni denti con la conseguenza che per parlarci bisogna armarsi di un ombrello e claudicante. A cesello, porta ancora gli orecchini d’oro come facevano anticamente i campagnoli. Poi ci sono i problemi finanziari, che sono quelli che gli levano il sonno. Un tempo lavorava bene, il Bauscia, tanto da essersi comprato un laboratorio con tutti gli annessi e connessi ed aveva assunto una decina di dipendenti. Peccato che, si è detto, con l’esplosione dell’industria sono tanti gli artigiani a cadere in disgrazia.
Il Meazza non fa eccezione. Oltretutto gli è morta anche la moglie, al disgraziato, che lo aiutava a tenere i conti, e si sono aggiunte le spese per lo scrivano. Non vedeva via d’uscita, il Bauscia, e non ne faceva mistero. Per questo il Binda, di carità cristiana armato, aveva organizzato quell’incontro con il suo amico. Perché il Siur Togn è uno che sa il fatto suo. A proposito di carità cristiana, è fatto noto che il Boggia ne sia dotato in quantità industriale, e si dice subito disposto a consigliare lo sciagurato, a patto che questi lo metta a giorno sulla situazione finanziaria in cui versa. Al Meazza non pare vero e gli racconta tutto. Il Boggia si fa pensieroso, prende appunti, si specchia nel bicchiere e i suoi occhi profondi brillano nella fioca e fumosa illuminazione dell’Osteria. Conclude che le cose sono serie e ci vuole qualche ora di riflessione.
Una procura per liberarsi dai creditori
Quando due giorni dopo il Siur Togn si presenta alla porta del laboratorio del fabbro questi lo accoglie con i salamelecchi che si devono ai notabili. Il Boggia ha una soluzione, ma è meglio parlarne lontano da orecchie indiscrete, all’Osteria all’angolo. Qui l’Antonio dice chiaro: uscirne per vie diritte non è aria, bisogna uscirne per vie traverse. Fin quando i creditori vedono il Bauscia al lavoro nell’officina non gli daranno tregua. Bisogna che si tolga di torno. Mica per sempre, sia chiaro. Per un po’, a cambiar l’aria sui monti, o magari al lago. E a proposito di lago, il Boggia ha una proposta ulteriore. Il Meazza è vedovo, e lui ha al suo paese una cugina nubile che l’età da marito l’ha passata da un po’, ma il capriccio le è rimasto. Oltretutto ha pure qualche risparmio. Che gran colpo sarebbe! Un nuovo matrimonio, la vita tranquilla sul Lario e due spiccioli in tasca. Sì, certo, la proposta è allettante, ma chi rimane a occuparsi del laboratorio, i dipendenti, i creditori? Va bene cambiar l’aria, ma nemmeno a chiudere bottega senza occuparsi della questione.
Antonio Boggia dice sicuro: qui si risolve facile. Si prende un uomo di polso, scafato, gli si firma una bella procura e quello fa brutto ai creditori: o te mangiet la minestra o te saltet dala finestra. Prendere o lasciare.
La proposta di Boggia: nuovo matrimonio e nuova vita
Impresa tutt’altro che facile è trovare l’uomo alla bisogna. Anche se il Meazza sa, sa che la soluzione è lì, davanti ai suoi occhi. Così si fa coraggio e tira fuori la voce: sarebbe un onore per lui se a fargli da amministratore fosse il Togn. Quello però non ne vuol sentire parlare, che Dio solo sa quante seccature ha avuto a far del bene al prossimo. Il Bauscia insiste, mette in campo la gratitudine eterna e il fatto che, a quanto sembra, stiano per diventare parenti.
Pochi giorni dopo il Meazza fa la conoscenza della sua futura moglie, che in quanto a bellezza non può certo fargli invidia e, prima di partire con lei alla volta del Lago di Como, firma al suo salvatore la famigerata procura.
Uscito dallo studio del notaio il Bauscia non può credere alla sua fortuna: ora che il Boggia ha in mano la procura ad negotia farà le sue veci in tutto e per tutto, e i creditori non saranno mai più un suo problema. Non sa come sdebitarsi e promette all’amico di ricompensarlo lautamente appena possibile. Manca poco che quello si offenda. Ma che ricompense, ma che denari. L’amicizia, gli basta! L’amicizia! E a tal proposito gli chiede se per favore sarebbe così gentile da cambiargli una serratura.
Poco distante, dice, ha una cantina e spesso la gente ci ficca il naso per rubare. Se non gli dispiace perderebbero solo due minuti per prendere le misure, tanto è lì dietro, nella Stretta Bagnera.
Giovannino Maurier e la ricerca della anziana madre
Giovannino Maurier non è convinto. Che quella vecchia zoppa di sua madre abbia firmato una procura a qualcuno gli sembra impossibile. E fa le sue ricerche. Vuole conoscerlo, questo Boggia, che sembra tanto a suo agio nel gestire il condominio da aver fatto modificare l’appartamento della Sciura Ester e avere raddoppiato i canoni d’affitto degli inquilini. E sì che quelli pagano senza batter ciglio, perché avrà pure aumentato la pigione ma al contempo ha ammazzato tutti gli animali e finalmente si vive in un condominio come Cristo comanda. Far fuori gli animali, Giovanni lo sa, suo madre non lo avrebbe tollerato. Così finalmente si ritrova faccia a faccia col Boggia, in un incontro tutt’altro che cordiale, al punto che il Maurier decide di sporgere querela: vuol sapere che fine ha fatto la vecia.
Quando viene convocato in Questura trova lì anche il Siur Togn, che spegne subito i suoi ardori tirando fuori una lettera in cui la madre (Giovanni riconosce la grafia) intima al capomastro di non rivelare a nessuno il suo indirizzo, men che meno al figlio. Letta silenziosamente la missiva, il funzionario si rivolge al Maurier: se suocera e nuora non si possono vedere, è compito del figlio e marito metterci una pezza, perché quando una madre dice a chiare lettere di non voler più vedere il suo ragazzo, deve avere gravissimi motivi.
La frattura evidente tra Maurier e Boggia
Non molto tempo dopo il Boggia, che aveva tentato senza fortuna di vendere l’intero condominio, si presenta alla porta del Maurier, con l’aria di chi vuole ricomporre la frattura. Racconta che la colpa non è sua, che è stata Ester a raccomandargli durezza col di lei figlio (e in questo trova inattesa sponda nella moglie del Maurier che si dice convinta che sia così perché la vecchia è una megera) ma che ci sono novità positive. La Perrocchio, che prima gli aveva dato mandato di vendere il palazzo ha cambiato idea: è meglio affittarlo in blocco per dodici anni. E ciò è bene, perché il figlio da unico erede saprà poi ben che farsene a suo gusto del palazzo, un domani.
Alla firma davanti al notaio, spiega, bisogna che si presenti anche Giovanni però, nel suo interesse. La madre ha infatti stabilito che il palazzo sarà affittato ad eccezione dell’appartamento in cui lei aveva vissuto, che resterà ad uso esclusivo di Giovanni e della sua famiglia. Manca poco che il figlio si metta piangere lì, constatando che allora la mamma lo ama ancora, nonostante tutto. Tre giorni dopo l’atto viene firmato, con soddisfazione di tutte le parti.
La macchinazione del Boggia si inceppa
La macchinazione del Boggia, però, trova due avversari inattesi e coriacei. La cugina della signora Ester, che vivendo a due passi da Como non riusciva a credere che la parente si fosse trasferita in zona senza informarla o farle visita, e il Notaio Cattaneo che leggendo e rileggendo gli atti, si imbatte in un errore che lo mette in allarme.
Nell’atto di procura a favore del Boggia firmato davanti al Notaio Bolza, di Como, la Perrocchio figurava come figlia di Giuseppe, mentre all’anagrafe risultava che il nome del padre fosse Giovan Battista. Certo, poteva essere un refuso, un errore banale, il frutto della mente non proprio lucida di una vecchietta capricciosa e originale, ma deontologia imponeva di controllare.
Cattaneo convoca il Boggia il quale casca dalle nuvole e si impegna a recarsi dal notaio comasco per far correggere il documento. Pochi giorni e glielo riporta corretto e siglato dal collega. Cattaneo però non si fida. Sospetta che sotto ci sia una storia di circonvenzione di incapace e convoca il figlio e la cugina della donna, Signora Cannobbio. Quest’ultima è sul piede di guerra perché il Boggia non le piace affatto. Dopo un confronto con il nipote e il Cattaneo si reca a Como e piomba nello studio del Notaio Bolza, chiedendo conto della rettifica del nome del padre della cugina sulla procura. Il Notaio assicura di non saperne nulla, quella modifica non la ha fatta mica lui. Cerca però di rabbonire la scatenata signora: è un fatto di forma, la sostanza non cambia.
Uno sconosciuto che si gode i soldi di sua cugina
La Cannobio non ci sta a farsi menare per il naso. A Milano c’è un illustre sconosciuto che fa il bello e il cattivo tempo con gli averi della cugina, ogni tanto arrivano lettere sospette, la donna non si trova e adesso il Notaio sta qui a parlare di errori formali. Chiede conto di chi fossero i testimoni citati nell’atto e viene fuori che erano due praticanti dello studio perché i due accorsi con il Boggia non avevano la residenza a Como e quindi non potevano prestarsi. La cugina gli chiede allora se avesse conservato i dati di questi due ma quello confessa di non averci pensato.
La Cannobbio gli domanda se si renda conto della gravità della sua condotta, rimarcando come adesso si sia persa l’ultima possibilità di rintracciare la cugina. Il Notaio cerca di rassicurarla, dicendosi sicuro che la donna si farà viva da sola. Ma come potrà farsi viva da sola, benedetto uomo, se il suo collega di Milano si era rifiutato di autenticare la procura perché le condizioni della donna lo avevano messo in allarme, depressa e spenta com’era. Depressa? Obietta il Bolza, ma se mai lui aveva visto una donna dell’età della Perrocchio tanto in forma: prestante, alta e robusta.
L’arresto di Antonio Boggia
La cugina trasecola e si scoperchia il Vaso di Pandora. La Sciura Ester a dispetto del caratterino bizzoso, era minuta, per non dire minuscola, e oltretutto zoppa e gobba. È evidente che il Boggia si era presentato dal notaio comasco spacciando per la Perrocchio un’altra donna. La cugina torna a Milano e in compagnia del nipote si reca dal Notaio Cattaneo per metterlo a conoscenza dei fatti. E quello trasecola a sua volta. Davanti a lui il Boggia si era presentato con una donna né alta né minuta, dai capelli bianchi, che si era confusa alle sue domande tanto da indurlo a rifiutare l’autentica e a sospettare la circonvenzione d’incapace, che aveva infatti segnalato al Pretore, ma quello non si era nemmeno degnato di esaminare l’istanza.
Se lo avesse fatto la storia sarebbe finita molto prima. Invece finì, per aprirne una ben più angosciante, il 9 marzo 1860, quando a seguito della denuncia presentata da Giovanni Maurier – il quale ha capito che la mossa di cedergli l’appartamento in comodato era un tentativo del Togn di ammorbidirlo – in data 26 febbraio, il Giudice Crivelli e i suoi uomini arrestano Antonio Boggia nella sua abitazione di Via Nerino, a due passi dalla via più stretta di Milano.
Circonvenzione di incapace e tanto altro
Il Giudice, uomo acuto ed esperto, capisce che il Boggia è scaltro, e che sarebbe in grado, in caso di interrogatorio mal preparato, di schivare con astuzia i colpi dell’Accusa. Oltretutto l’istinto gli suggerisce che sotto a questa storia ci sia ben altro che la circonvenzione di incapace. Allora studia. Convoca il Maurier, la Cannobbio, il Notaio Cattaneo, il Bolza e i testimoni di comodo, la portinaia dello stabile con suo marito, ascolta i loro racconti e si fa un’idea. Va poi in cerca dei precedenti del Boggia e si imbatte in un caso che rafforza i suoi sospetti.
1851: Giovanni Comi e l’aggressione nella cantina del Boggia
Nel 1851 il sensale Giovanni Comi era stato visto fuggire sanguinante dalla cantina della Stretta Bagnera inseguito dal Boggia che cercava di riportarlo dentro. Salvato da un conoscente che passava di là per caso il Comi aveva raccontato che il Togn, suo amico, gli aveva chiesto la gentilezza di dare un’occhiata a certi conti e lo aveva condotto nel suo locale. Lì, chino sui fogli, si era sentito vibrare uno spaccalegna sulla testa. Il caso aveva voluto che, immaginando fosse una cosa di pochi minuti, non si era tolto il robusto cappello a tese larghissime che era solito portare, e che di fatto gli aveva salvato la pelle. Il Boggia, subito dopo aver vibrato il colpo, anziché finirlo si era fermato come inebetito ciangottando parole incomprensibili, poi, quando il Comi era fuggito, sembrava essersi riavuto e aveva tentato di acchiapparlo, ma una volta che il sensale era stato tratto in salvo si era nuovamente bloccato con lo sguardo fisso nel vuoto borbottando Scusa, scusa.
Ricoverato per alcuni mesi nel primo manicomio milanese
Questo singolare comportamento e i racconti di alcuni testimoni, che riportarono come talvolta il Boggia si lanciasse in soliloqui contro fantomatici ex amici causa delle sue disgrazie, la dedizione al vino e ai liquori, l’apatia con cui aveva accolto la morte della moglie, le stranezze del suo comportamento – non era raro che insolentisse i suoi sottoposti, li cacciasse a male parole per poi raggiungerli e offrirgli commosso da bere – suggerirono che al momento dell’aggressione l’uomo non fosse capace di intendere e di volere e che fosse opportuno ricoverarlo per alcuni mesi alla Pia Casa della Senavra, il primo manicomio milanese, dove fu curato tramite purganti e rilasciato quando considerato guarito, non tanto per i medicamenti quanto perché gli erano stati proibiti vino e affini.
Il giro di falsi testimoni creato dal Boggia
Il Giudice intanto scopre che anni prima la zia del Ribbone aveva dovuto opporre continue resistenze al Boggia, che si era presentato da lei sventolando procure di diversa fatta, al fine di recuperare i danari. Alla fine, consigliata dal marito, da un notaio e da un Pretore, nonché incentivata da 40 lire di pensiero per il disturbo, aveva ceduto.
Proseguendo nelle indagini e andando in cerca di riscontri, Crivelli ha modo di comprendere come il Boggia, negli anni, fosse stato capace di mettere su un vero e proprio sistema di falsi testimoni, attrici della domenica che facessero la parte della Perrocchio quando necessario, scrivani e giovani di studio presso notai e avvocati compiacenti, oltre ad un vero e proprio complice fisso, tal Leopoldo Lisska. A svelare questa efficiente organizzazione è un facchino a nome Besozzi, detto Garibaldi, c’è da credere per ironia, giacché dell’acume dell’eroe dei due mondi egli non ne ha nemmeno l’ombra. Terrorizzato dall’idea di finire in carcere, seppur a fatica, spiattella tutto (o quasi). Racconta di aver fatto da testimone, di aver garantito davanti a notai che una certa donna fosse Ester Maria Perrocchio, sebbene lui non avesse idea di chi fosse, di aver messo delle firme, o meglio delle X, dove il Boggia e certi scrivani gli indicavano, infine affibbia al Lisska il ruolo di sodale di fiducia del Togn.
Boggia in carcere: “non ricordo”
A proposito di Togn, Antonio Boggia, ristretto in carcere, fa la vittima. Si lamenta del rancio, sostiene di star male e, nel primo interrogatorio, infarcisce la deposizione con una sfilza di non ricordo, intervallati da lamenti per un costante mal di testa. Quando Crivelli si avvicina ai passi salienti chiama in causa l’emicrania o la scarsa memoria, quando si tratta di affrontare temi assai meno rilevanti si lascia andare a prolisse divagazioni di nessun rilievo.
Il Giudice sa fare il suo mestiere e, certo che il grosso debba ancora saltar fuori, lo lascia lessare nel suo brodo.
Arrestati 2 complici
Nel frattempo ha fatto arrestare Lisska, il marito della portinaia dello stabile di Via di Santa Marta e tale Borghi, giovane commesso d’avvocato di manica piuttosto larga. Lisska vede la mal parata e decide di far poche barricate: confessa che le lettere della Perrocchio che Boggia aveva mostrato anche a colleghi del Crivelli, oltre che a notai ed avvocati nonché al figlio della donna, e che erano state riconosciute come autentiche le aveva in realtà scritte lui, sfruttando la propria antica abilità nell’imitare le grafie altrui. Aggiunge poi che una delle donne scelte per impersonare la Perrocchio di fronte ai notai era sua madre, non il donnone imponente ma l’altra, dai capelli bianchi e il fisico normale.
Tutti e 3 morti prima del processo
Crivelli a questo punto è convinto: la Perrocchio non è certo a Como, bensì all’altro mondo, e a mandarcela è stato il Boggia. Decide di interrogare il marito della portinaia e lo trova in pessime condizioni, provato dalla detenzione. Lo pressa quel tanto che basta, gli dice di sapere che ha aiutato il Togn a ripulire l’appartamento della Ester e quello ci casca, assicurando di aver solo portato dei secchi pieni d’acqua davanti alla porta, senza entrare.
Caso strano: sia lui, che il Borghi, che il Lisska moriranno prima del processo. Che sia stato per la vergogna, la paura o le asperità della detenzione, vanno aggiunti al conto delle vittime di Antonio Boggia, se non altro come morti collaterali.
La prima confessione di Boggia
Al quinto interrogatorio Boggia capisce che gli conviene confessare. Confessa, naturalmente, solo l’omicidio della vecchia padrona di casa. Fa ritrovare il corpo, murato nella Stretta Bagnera, decapitato e con le gambe amputate, sebbene sostenga di ricordare di aver tagliato solo la testa.
Non appena si sparge la voce, fra i parrocchiani di San Giorgio e gli abitanti del triangolo intorno alla Stretta la fa da padrona l’incredulità. Ma come, el Siur Togn, una così brava persona, timorata di Dio. Non è possibile.
Però, poi, si fanno largo anche altre voci. Che l’uomo era tutto casa e chiesa…e osteria, e che quando beveva bisognava fare attenzione. E poi, misterioso, taciturno, chissà. Soprattutto, chiacchiera dopo chiacchiera, viene fuori che ne erano sparite altre, di persone, che avevano avuto a che fare con lui.
Vien fuori che erano sparite altre persone
Si ricorda del Boggia il commerciante che aveva prestato le 4000 svanziche al mediatore Marchesotti dieci anni prima, e presenta immediatamente denuncia. Racconta che dopo la sparizione del conoscente si era presentato da lui un certo muratore, raccontando di aver prestato a Marchesotti 20 marenghi d’oro e che quello era forse scappato per non restituirglieli. Viene ricollegata alla sparizione del mediatore anche l’aggressione al Comi, che apparteneva allo stesso giro di amicizie del fratello del Marchesotti, e tutte le persone ascoltate giurano che mai e poi mai quel galantuomo avrebbe pensato di fregare il prossimo fuggendo col malloppo.
Le coincidenze cominciano a essere troppe, e Crivelli ordina nuova e approfondita perquisizione presso l’abitazione del Boggia. Vengono trovate tre procure, firmate da Pietro Meazza, da Angelo Serafino Ribbone e da tale Carlo Fumagalli, di cui mai nulla si saprà.
La confessione del facchino che aiutà Boggia
Crivelli, ricordando alcune esitazioni del detto Garibaldi durante l’interrogatorio lo fa arrestare, al fine di restituirgli la memoria. Nel frattempo torna alla carica col Boggia, chiedendogli conto delle procure rinvenute in casa sua e rimarcando la strana coincidenza che vuole i firmatari spariti nel nulla da anni. Il Togn gioca nuovamente la carta della smemoratezza, infilando una sequela di non ricordo da record, ostentando anche episodi di estasi mistica. Ogni tanto butta là qualche particolare, per lo più a discredito degli scomparsi: rammenta che il Marchesotti si era fatto prestare dei soldi per poi darsi alla macchia, che aveva aiutato il Meazza a vendere l’attività a uno che poi non lo aveva nemmeno pagato e che il Ribbone non lo vedeva da quella volta che gli portò le svanziche a Lodi dopo avere sudato le proverbiali sette camicie per convincere la zia che gli aveva fatto fare il giro dei notai della zona per venirne a capo. Il Giudice gli domanda se fosse andato da solo a Lodi e quello, credendo di darsi una mano chiamando in causa un testimone, dice di essersi recato là col Garibaldi.
Tombola! Crivelli fa riportare Boggia in cella e convoca il malcapitato facchino che, provato dalla detenzione, si lamenta del fatto di essere stato arrestato senza motivo. Il Giudice interrompe la sfilza di Non ho fatto niente! prendendolo di petto Ah non avete fatto niente? Secondo me invece qualcosa avete fatto, a Lodi. Il poveraccio ci casca con tutte le scarpe e vuota il sacco in un sol fiato: a Lodi ci era andato per dare una mano al Boggia, sostituendo un suo amico che era malato davanti a un notaio.
Prime perquisizioni alla Stretta Bagnara
Non ricordo il nome, Bibbione, Sapone. Ribbone. Sì ecco, lui. Crivelli gli fa notare che ha commesso un reato e che quindi in carcere ci sta a buon diritto, dopodiché chiede se poi siano andati insieme a consegnare il denaro riscattato al povero ammalato. No, io quel Ribbone non l’ho mai visto. Dopo esser stati dal notaio il Boggia mi ha offerto la colazione ed è finita lì. Generoso, il Togn.
Il Giudice ormai è convinto di avere imboccato la strada giusta, ma deve fare i conti con la cocciutaggine del Boggia che, ogni qual volta viene interrogato, ripete che lui le procure le ha ottenute legalmente e che di quella gente di cui gli si parla non ha notizia da anni, che si provasse il contrario. La motivazione è evidente, se per la morte della vecia può chiamare in causa il raptus, la follia momentanea e sperare in un nuovo soggiorno in manicomio, per quanto più lungo del precedente, se venisse provata la sistematica eliminazione, al fine di impossessarsi dei loro averi, di più persone non sarebbe più una rob de matt e sullo sfondo, vista l’epoca, si staglierebbe il patibolo.
Se Boggia non molla Crivelli non è da meno; compreso che tanto il muratore non confesserà, sa che l’unica via è trovare i cadaveri. In considerazione del fatto che l’aggressione non fatale al Comi era avvenuta nella Stretta Bagnera decide di rivoltare l’antro come un calzino. Eppure, sulle prime non si trova nulla. Negli anni il palazzo e i sotterranei avevano subito ristrutturazioni e modifiche, pertanto anche orientarsi non è cosa semplice. Il Giudice fa controllare anche l’alloggio del Ribbone al Comando Militare, hai visto mai, ma non salta fuori niente. Antonio Boggia presenzia a tutte le perquisizioni con un’aria soddisfatta e un sorriso malcelato. A lui non la si fa.
Il ritrovamento dei primi corpi
Il Primo maggio 1861 Crivelli si presenta nuovamente nella Stretta Bagnera, senza il Boggia. In compenso si fa accompagnare da una squadra di muratori e sterratori, che sottopone a una fatica enorme, che dura ore. Dopo lunghi studi di edilizia è riuscito a ricostruire la posizione dell’antica cantina ed è lì che fa picconare. Alle otto di sera salta fuori uno scheletro.
Il Giudice manda a prelevare il Boggia, che si presenta senza tradire emozione. Si concede addirittura una battuta quando a chi vuole aiutarlo a calarsi nell’antro risponde che conosce la strada. Gli fanno notare che si trova davanti a quel che resta del Meazza, riconosciuto dagli orecchini da campagnolo che avevano resistito accanto alle ossa. Lui risponde che quel Meazza gli aveva firmato una procura e poi era partito per Urio con la romantica prospettiva di sposare sua cugina. Poi, chissà. L’interrogatorio non sortisce effetto e allora Crivelli si riporta nella cantina. Aveva notato un unico lampo di inquietudine, quella sera, negli occhi del Boggia. Giunto sul posto aveva gettato una rapida e ansiosa occhiata verso un certo angolo. Indirizza lì gli stremati picconatori che, intervallando il lavoro con un morso di pane e formaggio e un sorso di Barbera, continuano nella loro opera.
È una scena da Grand Guignol, la fioca e rossastra luce delle lanterne crea ombre allungate di sagome che abbattono colpi violenti sulle mura, in uno svolazzo di polvere, terra e calce. Alla fine, gli altri due scheletri saltano fuori.
Inizia il processo per il Boggia
Tre periti analizzano i resti e li attribuiscono con ragionevole certezza in base a quelli che sono gli strumenti del tempo. Quello senza incisivi e con la tibia ingrossata è il claudicante Meazza, quello con le ossa nasali curve, ancora giovane, era il Ribbone. Il terzo, per esclusione e conformazione, era il Marchesotti.
Per Antonio Boggia si aprono le porte del Processo. Con non pochi intoppi di natura formale. Avendo egli operato nell’arco di molti anni, era passato attraverso diversi codici penali applicati nella città di Milano. Basti pensare che nel frattempo, essendosi conclusa l’istruttoria nel settembre del 1861, era stata proclamata l’Unità d’Italia con tutte le conseguenze, anche burocratiche, del caso.
Oltretutto al Boggia vengono contestati reati diversi, l’omicidio plurimo, il tentato omicidio, la truffa, la sostituzione di persona, il falso e chi più ne ha più ne metta. C’è poi il tema della sanità mentale dell’imputato che, è bene ricordarlo, una decina di anni prima era stato considerato incapace di intendere e di volere al momento del fatto, cioè della aggressione al Comi. Come bisognava regolarsi? Considerarlo matto almeno fino a quel punto? Quindi ascrivere alla follia la responsabilità dei primi delitti? Anche perché il collegio peritale incaricato di analizzare lo stato mentale del Togn dopo i ritrovamenti in cantina stabilisce che per l’astuzia, la dissimulazione, la perseveranza nell’atto dei suoi crimini poteva esser citato a modello di mente accorta e previdente. Praticamente un biglietto di sola andata per la forca.
La questione dei complici
Infine la questione complici. Ne aveva avuti, il Boggia? In un certo senso sì, anche se non si può dar per scontato che questi sapessero di essere complici in reato d’omicidio, anziché di truffa o roba di poco conto. Crivelli valuta con attenzione le posizioni di tutti, esclusi quelli già comparsi di fronte al più alto Tribunale di Domineddio, compresi i notai. Nonostante qualcuno vada vicino a beccarsi l’imputazione per concorso in omicidio il Crivelli si rivela clemente, evitando di portarne a giudizio alcuno, convinto che il responsabile unico fosse il Boggia e che solo alla sua innegabile capacità di persuasione andasse ricondotto il fatto che tanta gente lo avesse in qualche maniera aiutato.
Uomo solitario, di fronte alla Legge il Boggia si presenta solo. E ormai reo confesso.
Processo mediatico ante litteram
Si tiene un vero e proprio processo mediatico ante litteram, l’aula è affollata, nell’arco delle cinque giornate di udienza (tempi assai più brevi di quelli biblici di oggi che ci fanno osservare che forse davvero si stava meglio quando si stava peggio) ci sarà bisogno addirittura di sgomberare l’Aula perché le persone nelle file retrostanti si arrampicano per assistere allo show del Boggia che mima le aggressioni. A suo agio nel ruolo di primattore il muratore di Urio mette su uno spettacolo basato sui suoi soliti cavalli di battaglia: non ricordo, la mia testa, mi sono commosso dopo l’omicidio, ho pregato, mi colse un estro, Signore salvami tu.
A proposito di estro, a un certo punto il Boggia chiede che vengano sentiti come testimoni a sua difesa i suoi compagni di cella, che avrebbero raccontato lo stato mentale precario del povero cristo. Tanto insiste che li portano in udienza.
Nonostante gli sforzi oratori del difensore Avvocato Molinari nell’ultimo giorno di dibattimento, il Presidente Zendrini lo ritiene responsabile di tutti i reati a lui ascritti e, ancorché derubricando il tentato omicidio ai danni del Comi in lesioni, lo condanna all’impiccagione, consegnandolo alla Storia come Primo Serial Killer italiano.
Condannato all’impiccagione: l’ultima della Storia
Il giorno 8 di aprile del 1862, dopo una sfilata per le vie della città, il Boggia giunge in un prato fra Porta Vigentina e Porta Lodovica, dove lo attende il patibolo su un carro coperto da teli, perché i curiosi non si accalchino per assistere. Il muratore si rivolge al boia e, per tre volte, gli intima Mi raccomando!
C’è un ritrattista che sta ai piedi del palco per immortalare il momento; il Togn lo fissa, inarca le folte sopracciglia a rendere ancor più torvo il suo sguardo e proferisce una frase che lo rivela per quel che è sempre stato: un ganassa che agiva per denaro. Mi vuoi ritrarre? Duecento svanziche. Pochi minuti dopo viene impiccato e, a Milano, fu l’ultimo della Storia.
Qualche anno dopo la testa del Boggia fu affidata al Padre della Criminologia Cesare Lombroso che, analizzandola, trasse conferme circa la sua – oggi superata e sconfessata – Teoria del delinquente nato.
– Per la stesura di questo pezzo è stata fondamentale la lettura de Il Giallo della Stretta Bagnera di Giovanni Luzzi, di cui si consiglia la lettura a chi volesse approfondire la storia di Antonio Boggia.