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Luigi Chiatti, storia del Mostro di Foligno

L’aula di Tribunale è gremita. Su una sedia da ufficio, di quelle con le rotelle, sta seduto un giovane uomo. È rilassato, distaccato. Ha gli occhi chiari, il viso perfettamente rasato, indossa un maglione grigio sopra una camicia pesante. È un tipo abbastanza insignificante. Parla con voce calma, a volume basso, con un tono quasi dolce. Sembra un maestro, che ripete una lezione che in realtà non gli interessa, non lo appassiona, e allo stesso tempo quel suo racconto in alcuni passaggi ha la pedanteria tipica di certi insegnanti che si compiacciono del proprio eloquio.

Lo sguardo, che talvolta si inclina verso il basso, alla sua destra, è placido. Le persone presenti sono annichilite, agghiacciate. Si portano le mani tra i capelli, hanno gli occhi increduli, qualcuno tiene letteralmente la bocca aperta. Altri scuotono la testa. Le anziane signore sedute nelle prime file sembrano urlare silenziosamente contro l’orrore di un racconto semplicemente irricevibile.

L’uomo seduto sulla sedia da ufficio, infatti, sta raccontando come ha ammazzato due bambini, di 4 e 13 anni. Quando gli mostrano il forchettone con cui ha trafitto il secondo, dice imperturbabile Sì, lo riconosco, poi inclina lo sguardo verso il basso, alla sua destra. E sorride.

In questo articolo parliamo di:

Non una storia di un semplice serial killer

Questa storia è più difficile e dura di altre. Come per tutte quelle che hanno per vittime i bambini, sorge il dubbio se sia il caso di raccontarla. Se non sarebbe meglio evitare di spargere sale su ferite che non hanno possibilità di rimarginarsi, se non sia il caso di fare finta di dimenticare, di nascondere qualcosa che ci fa troppo orrore. Non sarebbe giusto, è una storia che deve necessariamente essere raccontata perché sia da monito, da ricordo e da spunto.
Non c’è solo il racconto delle azioni criminose di quello che è a tutti gli effetti un serial killer. È una storia che offre l’occasione di riflettere sulla malattia mentale, su se e quanto questa possa essere considerata l’unica o primaria causa di azioni così terribili o se abbia solamente concorso, sulle difficoltà che le famiglie hanno nel comprenderla, accettarla e fronteggiarla quando questa varca la porta delle loro case senza bussare.
È anche la storia dell’assenza totale di servizi sociali nella provincia italiana degli anni ‘70 e di come possa saltare in testa a un ragazzo che con questa vicenda non ha nulla a che spartire di documentarsi, studiare il caso per filo e per segno, con il fine di auto accusarsi di essere l’assassino, nella speranza di attirare così l’attenzione della ragazza che lo aveva lasciato.

È la storia di due bambini che oggi sarebbero due uomini ancora giovani e ai quali invece è stato concesso di dare solo un assaggio alla vita. Perché sulla loro strada hanno incontrato Luigi Chiatti, Il Mostro di Foligno.

Simone Allegretti, bambino di 4 anni, la prima vittima

È domenica 04 ottobre 1992 e Simone Allegretti, quattro anni, sta giocando davanti a casa, a Maceratola di Foligno. È uscito con la bici e l’ha appoggiata ad un albero di noci che sta a meno di 100 metri dalla porta. Gioca da solo, raccoglie i frutti, ogni tanto la madre si affaccia a controllare che vada tutto bene. Non c’è motivo di essere troppo apprensivi, è una di quelle situazioni di campagna, quattro strade, poche persone, tutti si conoscono e si danno un’occhiata a vicenda. I bimbi crescono liberi.

Alle 15,30 la mamma si affaccia nuovamente e quella che vede è una scena che ricorda l’inizio di molti film horror americani di grande successo fra i 90 e i 2000. C’è la bicicletta appoggiata all’albero nel silenzio rotto solo da qualche suono della natura, intorno non c’è nessuno. Simone è scomparso.

Lì dietro c’è un fiumiciattolo, l’acqua è alta meno di 20 cm. Il bambino non c’è. I genitori, i parenti e i vicini lo cercano dappertutto, chiamano le forze dell’ordine. Le ricerche vanno avanti per tutto il giorno e tutta la notte, senza esito.

Il martedì squilla il telefono dei carabinieri di Foligno. È una chiamata muta, ma chi la fa, a differenza di quanto accade solitamente in questi casi, non riaggancia il telefono e tiene la comunicazione aperta. La telefonata arriva da una cabina nei pressi della stazione di Foligno, un carabiniere si reca sul posto. Trova la cornetta sganciata e attaccato all’apparecchio un foglio a quadretti su cui campeggia un messaggio scritto con un pennarello azzurro, in uno stampatello così preciso da sembrare essere stato cesellato con un normografo.

La telefonata anonima: “ho commesso un omicidio”

Aiuto! Aiutatemi per favore. Il 4 ottobre ho commesso un omicidio. Sono pentito ora, anche se so che non mi fermerò qui. Il corpo di Simone si trova vicino la strada che collega Casale e Scopoli. È nudo e non ha l’orologio con il cinturino nero e quadrante bianco. P.s.: Non cercate le impronte sul foglio, non sono stupido fino a questo punto. Ho usato dei guanti. Saluti, al prossimo omicidio. Il mostro.

Di messaggi e telefonate da parte di mitomani le forze dell’ordine di tutto il mondo ne ricevono quotidianamente. Nonostante ciò gli inquirenti danno credito a quel messaggio, anche perché sanno che il piccolo Simone indossava effettivamente un orologio nero e bianco. Vanno nella zona indicata sul biglietto e lì, in una discarica abusiva, trovano il corpo nudo di Simone. È stato violentato.

Il ritrovamento del corpo del bimbo

Spoleto, l’Umbria, l’Italia intera sprofondano nell’orrore, nella psicosi, nel panico. La partecipazione emotiva del Paese, comprensibilmente, è enorme.

Nel polmone verde d’Italia si aggira un’auto proclamato (ma nessuno ha intenzione di smentirlo) Mostro che ha ucciso un bimbo di appena quattro anni ed ha oltretutto annunciato l’intenzione di non fermarsi: lo Stato deve intervenire. Il Ministero invia a Foligno un gran numero di Poliziotti, che occupano interamente un albergo della città. Ci sono anche uomini della SAM, la Squadra Anti Mostro creata per indagare esclusivamente sui delitti del Mostro di Firenze. Coordina le indagini uno dei più importanti investigatori italiani, Achille Serra. In Umbria è stata radunata una vera e propria Nazionale delle Forze dell’ordine.

Una task force per trovare il mostro di Foligno

Gli elementi a disposizione sono pochissimi e la pressione enorme, si procede con una indagine tradizionale, si scorrono i nomi di persone che abbiano precedenti specifici, ci si rivolge agli informatori, ma anche loro non sanno nulla. Si pensa, essendo stato scritto il messaggio con un normografo (anche se poi si appurerà che non è così), ad un geometra o a una persona che abbia frequentato un Istituto Tecnico. Il tenore del messaggio fa pensare ad una persona giovane, presumibilmente della zona considerato che si è mosso in posti poco battuti. Ha lasciato il biglietto alle 11,30, quindi potrebbe essere un disoccupato, dato che a quell’ora le persone sono sul posto di lavoro. Vicino alla cabina ci sono segni di pneumatici di un’utilitaria.

Viene realizzato un Profilo Psicologico dell’assassino che mette in risalto la doppiezza del messaggio – vista la contemporanea presenza di una richiesta di aiuto e di una minaccia – che conferma l’ipotesi di un soggetto giovane. Uno dei pochi elementi evidenti è una certa volontà di comunicazione dell’omicida, viene quindi attivato un numero telefonico dedicato.

L’altra telefonata anonima: “sono il mostro di Foligno”

Il 13 ottobre l’assassino chiama. E stavolta parla. Sono il Mostro di Foligno, dice. Richiamerà altre undici volte. Però c’è qualcosa di strano. Innanzitutto il fatto che, per quanto sostenga di essere il Mostro di Foligno, chiama dalla provincia di Milano. Nella stessa zona dà anche appuntamento alla Polizia, in un bar di Rodano, nonsifa trovare ma telefona al Bar facendosi passare l’agente che lo sta aspettando. Dice che ci ha ripensato, non verrà e ucciderà ancora. Continua a telefonare, lo fa anche dalla agenzia immobiliare in cui lavora. È lì che lo vanno a prendere il 17 ottobre, per arrestarlo. Interrogato, racconta l’omicidio ed è ritenuto credibile.Anche se ci sono alcuni elementi decisamente strani.

Un mitomane che si spaccia per il mostro. Ma non è lui

Al di là del fatto che sarebbe partito da Milano per andare a uccidere a Foligno, che non è impossibile ma è quantomeno poco comprensibile, ci sono dei testimoni che affermano che il 4 ottobre, giorno dell’omicidio, fosse a Rodano. Oltretutto, pur sapendo descrivere minuziosamente la zona del ritrovamento del corpo e le condizioni del cadavere e indicare con assoluta precisione un tombino nel centro della città in cui avrebbe gettato l’orologio (che però non viene trovato), non è in grado di descrivere il luogo del delitto.

C’è un motivo. Quale sia il luogo del delitto non può saperlo, perché il Mostro di Foligno non è lui. Lui è un mitomane, direbbe qualcuno, si chiama Stefano Spilotros ed ha poco più di vent’anni. Con l’intenzione di attirare l’attenzione della sua ex ragazza si era messo a studiare con attenzione maniacale il caso dell’omicidio del piccolo Simone sui giornali, aiutato anche dal fatto di conoscere la città per averci svolto il servizio militare, e si era autoaccusato del delitto. Si è fatto due settimane di galera.
È stato tradito dallo studio matto e disperatissimo che ha fatto sul caso e che lo ha portato a leggere tutti i giornali che se ne stavano occupando. Anche uno che ha riportato la falsa notizia di una bruciatura di sigaretta rimasta impressa su un orecchio di Simone. Non può sapere che si tratta di una svista e racconta Gli ho spento una sigaretta sull’orecchio per essere sicuro che fosse morto. Il corpo verrà riesumato per controllare eventuali bruciature, che non verranno riscontrate.

Quel biglietto trovato all’aeroporto di Foligno

Nel frattempo, il 22 ottobre viene fatto ritrovare, con lo stesso metodo del primo, un secondo biglietto. Si trova in una cabina nei pressi dell’aeroporto di Foligno.

Aiuto, non riesco a fermarmi! L’omicidio di Simone è stato un omicidio perfetto. Certo è dura ammettere che sia così da parte delle forze dell’ordine ma analizziamo i fatti:

  • Io sono ancora libero
  • Avete in mano un ragazzo che non ha nulla a che fare con l’omicidio
  • Non avete la mia voce registrata perché non ho effettuato nessuna telefonata, quindi chi dice che ho telefonato al numero verde sbaglia
  • Le telecamere non mi hanno inquadrato durante il funerale di Simone perché non ci sono andato

Siete quindi fuori strada. Vi consiglio di sbrigarvi evitando altre figuracce. Non poltrite, muovetevi! Credete che basti una divisa e una pistola per arrestarmi?

Usate il cervello se ne avete ancora uno buono e non atrofizzato dal mancato uso.

NB Perché vi ho scritto di sbrigarvi? Perché ho deciso di colpire di nuovo la prossima settimana. Volete saperne di più? Vi ho già detto troppo ora tocca a voi evitare che succeda. Il Mostro.

Un soggetto affatto da solitudine che ha voluto attirare l’attenzione

È evidente che il Mostro non è Stefano Spilotros, che messo di fronte all’evidenza si scuserà per il trambusto provocato. Secondo la Criminologa Matilde Perego Spilotros è un soggetto afflitto da solitudine sociale, desideroso di attirare l’attenzione e l’autoaccusa è per lui una bugia come un’altra.

Achille Serra ricorderà come dopo questo clamoroso buco nell’acqua tutto il considerevole spiegamento di forze messo in campo alla ricerca dell’assassino verrà massacrato dalla Stampa.

La maggior parte dei poliziotti inviati a Spoleto nell’immediatezza dell’omicidio farà ritorno a Roma nei mesi successivi, anche perché non succede più nulla. Fino al giorno 08 aprile 1993, quando la mamma di Simone, che si è recata al cimitero per fare visita al suo bambino, si avvede che la foto sulla lapide è stata trafugata.

Ci sono altri mesi di silenzio in cui il Mostro non si fa più vivo.

Lorenzo Paolucci, il secondo bambino ucciso

Poi, il 07 agosto 1993, Lorenzo Paolucci non torna a pranzo a casa dei nonni, dai quali era atteso per le 13,00.

Il giovane, che sta passando le vacanze estive nella zona di Casale, poco fuori Foligno, nei giorni precedenti è stato visto più volte giocare a carte al Bar o in sala giochi con un ragazzo più grande.

Gli abitanti della zona si mobilitano per cercare Lorenzo. Una persona bussa alla porta di una casa poco lontano, la residenza di campagna del Dottor Ermanno Chiatti, che in quel momento non c’è. C’è suo figlio Luigi, venticinquenne, che è proprio il ragazzo che giocava a carte con il bambino scomparso. Anche quella mattina si erano visti, dice, ma si erano poi salutati sul presto, intorno alle dieci. Poco dopo Luigi esce di casa dicendo di volersi unire alle ricerche e sale sulla sua Y10. Va a buttare dei sacchi dell’immondizia. Poi torna a casa.

Arrivano anche i suoi genitori. Nel frattempo il nonno di Lorenzo trova il cadavere del nipote in una scarpata. Il Dottor Chiatti, in qualità di medico, interviene sulla scena, accompagnato dal figlio, che però non si avvicina. Perché ha altro a cui pensare. Probabilmente si accorge solo in quel momento che una serie di tracce di sangue portano dal corpo del bambino dritte davanti alla finestra della sua camera. Agli inquirenti che gliene chiedono conto risponde che è sangue di un animale. Ovviamente non ci credono ed entrano, trovando in un fustino di detersivo le ciabatte e gli occhiali di Lorenzo. Luigi Chiatti li guarda e dice Non sono stato io. Io sono un bravo boy scout.

“Non sono stato io, sono un bravo boy scout”. Luigi Chiatti, il mostro di Foligno

Nicola Cavaliere, all’epoca capo della Criminalpol del Lazio, ricorda come in commissariato gli vengano portati un panino e un pezzo di dolce e lui, impassibile, tranquillo, si perde in chiacchiere commentando il cibo. Come fosse un Giudice di Masterchef.

Durante la perquisizione che nel frattempo continua, vengono trovati all’esterno della casa, nascosti sotto un mucchietto di sassi, dodici Floppy Disk. Uno di questi contiene all’interno la descrizione di un piano per rapire dei bambini e vivere con loro nascosto da qualche parte. Il piano è molto dettagliato, articolato in punti, pensato per vivere in montagna con dei bambini per un periodo di sette anni. C’è un pennarello azzurro.
In soffitta vengono trovate cinque scatole, contrassegnate dalle lettere C, D, E, F, G e tre borsoni. Sulla scatola C c’è scritto Pulizia scarpe deposito unico, all’interno ci sono lucido da scarpe, spazzole, stracci. Le altre scatole sono uguali, c’è scritto Bagno + Doccia Solare + Asciugacapelli, dentro ci sono una doccia a riscaldamento solare, phon, e materiale da bagno vario. Nei tre borsoni ci sono pochi indumenti da adulto e vestiti da bambino di ogni tipo, tutti nuovi e riposti con ordine maniacale. Chiatti dirà che le scatole non erano complete, mancava ancora molto materiale.

I reperti ritrovati in casa di Chiatti

Vengono recuperati anche i sacchi della spazzatura che Chiatti aveva gettato nel primo pomeriggio, insieme ad alcuni vestiti e un orologio viene trovata la foto trafugata dalla lapide di Simone Allegretti. Anche l’orologio, è quello del bambino ucciso il 04 ottobre 1992. Il venticinquenne confessa entrambi gli omicidi.

Il giorno successivo all’arresto Chiatti viene interrogato. Qui comincia una fase lunga, che interesserà gli interrogatori, i processi, le perizie e le consulenze, una fase in cui sostanzialmente Luigi Chiatti parla di se stesso inserendo i fatti terribili di cui è colpevole solo come corollario, come conseguenza del suo vissuto precedente.

Primi interrogatori di Chiatti

Chiatti era nato a Narni nel 1968 con il nome di Antonio Rossi, figlio di una cameriera che, resasi conto di non essere in grado di provvedere alle sue esigenze e sottoposta allo stigma sociale che affliggeva al tempo una madre sola (e c’è da domandarsi se davvero le cose ad oggi siano cambiate), non ricevendo nessun tipo di supporto lo affida ad un brefotrofio. Lo va a trovare ogni volta che ha il giorno libero, ma è evidente che non possa occuparsi veramente di lui. Successivamente agli omicidi Chiatti racconterà che durante il periodo in Istituto aveva subito violenza sessuale da parte da un prete. La circostanza non potrà essere accertata.

Profilo psicologico di Chiatti bambino

Nel 1973 viene redatto un profilo psicologico del bambino, che lo descrive come di carattere conflittuale specie nei confronti della figura femminile da cui si attende rimproveri e punizioni […] Lega la sua condotta a quella di un coetaneo secondo uno schema di dipendenza […] Risente negativamente della carenza affettiva e delle frustrazioni derivanti dalla vita d’Istituto cui si aggiunge la mancanza della figura materna molto sentita. Tende ad isolarsi. Quando ha sei anni Antonio viene dato in affido ai Chiatti, che l’anno successivo formalizzano l’adozione, cambiando nome al bambino. Qualcuno noterà come gli anni che aveva al momento dell’adozione fossero sette, come sette sarebbero stati quelli che avrebbe voluto passare da qualche parte con dei bambini.

Il Dottor Ermanno Chiatti è un uomo chiuso, di poche parole, sempre preso dal lavoro. I rapporti con lui sono praticamente inesistenti, limitati alla cena in famiglia che però viene consumata in rigoroso silenzio, perché il medico deve seguire due telegiornali di fila. Va meglio con la madre, anche se con il tempo i rapporti si diraderanno.

Vita e infanzia di Luigi Chiatti, un bambino dal carattere conflittuale

Al Geometra, secondo una compagna di classe, si distingue come studente perfetto, i commilitoni del Servizio Militare lo descrivono come inappuntabile. Fin dal primo interrogatorio è chiara la narrazione che Chiatti intende fare di se stesso e della sua vita.

Fui adottato a sei anni, dopo aver vissuto in orfanotrofio. Al mio ingresso in casa Chiatti ho avuto subito grossi problemi di adattamento, coltivando una conflittualità con i genitori adottivi e gli altri parenti. Il mio comportamento, all’inizio vivace e capriccioso, si è tramutato col tempo in una grande timidezza… E’ da molto che non ho amici stabili e vivo prevalentemente in solitudine. […]

Il mio problema è che non ho compagnia. E niente mi ha aiutato a risolverlo, nemmeno le sedute di psicoterapia. Non ho mai trovato aiuto da nessuno. […] Quando ho ucciso Simone vivevo ormai da un pezzo in solitudine e questo aveva fatto crescere dentro di me la necessità di una compagnia. Anche il bisogno di un contatto fisico. Era qualcosa che mi montava dentro come una fame… Coi bambini avevo un ottimo rapporto, riuscivo ad avere la loro fiducia e ad essere coinvolto nei loro giochi. Mi ero dato allora alla ricerca fisica dei bambini… Percorrevo in macchina le vie nei dintorni di Foligno, poiché in tutta la città è difficile trovare bambini soli.

Perizia psichiatrica: un quoziente intellettivo superiore alla media

Come è prevedibile, il centro dei processi non sarà il chi ha commesso gli omicidi o il come; il punto è l’infermità mentale o meno, la capacità di intendere e di volere o meno. Sono due cose diverse, come vedremo. Ci affideremo alle parole e alle valutazioni di psichiatri e psicologi che sono intervenuti in sede peritale o che hanno analizzato il caso dall’esterno. È doveroso dire, prima di scendere nei particolari, che le perizie acclareranno come Luigi Chiatti sia dotato di un quoziente intellettivo superiore alla media. I Processi stabiliranno che è parzialmente capace di intendere e di volere, quello che appare evidente è che sa perfettamente cosa dice e come lo dice, la sua strategia comunicativa è chiara: Ho fatto quello che ho fatto ma ho le mie giustificazioni. Prima di diventare carnefice sono stato una vittima.

Il racconto di qualsiasi omicidio è sempre crudo, se si tratta di bambini è anche peggio. Qui, il modus operandi nell’approccio è decisamente inquietante. Per questo motivo riportiamo testualmente parte dei racconti resi da Chiatti il giorno dopo l’arresto, anche per consentire a chi non volesse leggere di passare direttamente al paragrafo successivo.

I racconti degli omicidi resi da Chiatti dopo l’arresto

Il 4 ottobre dell’anno scorso (1992) mi sono ritrovato solo in casa. I miei genitori erano in gita. Mi è venuta voglia, di nuovo, di cercare bambini. Sono uscito con la Y10 e ho battuto la strada tra Bevagna, Budino e dintorni e mi ero quasi stancato quando mi sono trovato a percorrere la strada Foligno-Maceratola. A un certo punto, ho visto un bambino che se ne stava sotto un albero, al quale era appoggiata una bicicletta. Ho spento, sono sceso e mi sono fermato accanto alla macchina. Lo guardavo e mi guardavo intorno. Ero consapevole del fatto che questa mia ricerca di bambini fosse illegale e perciò stavo attento.

Gli ho chiesto se la strada proseguiva e dove portava. Mi ha risposto. E allora gli ho domandato, con calma e senza insistere, di avvicinarsi. Dopo aver esitato un po’ mi è venuto vicino e allora l’ho invitato a salire… Gli ho spiegato che saremmo andati lì vicino. Mi ha detto di chiamarsi Simone… Quando siamo arrivati alla villa, l’ho accompagnato, dandogli la mano, in camera mia. Ho chiuso la porta, ma non a chiave. Ma Simone mi ha chiesto di riportarlo a casa. Io ero incerto… lui era tutto sporco, l’ho invitato a togliersi i vestiti… Io sono rimasto vestito. A quel punto, la fame di contatto fisico è tornata in me. L’ultima cosa che avrei voluto era di farlo piangere o soffrire; invece, Simone piangeva e invocava la mamma.
Mi preoccupavo che i vicini sentissero e così ho avuto l’impulso di fermarlo e non so perché l’ho fatto mettendogli una mano sulla gola, comprimendola in modo da farlo respirare ancora, ma da impedirgli di piangere. Ho cominciato a riflettere… avevo fatto del male ad un bambino, l’avevo sequestrato e questo era un reato grave, ho pensato allora di tenerlo lì, magari legandolo, ma non era possibile perché avrebbe urlato e avrebbe continuato a soffrire, cosa che assolutamente non volevo. E poi di lì a poco sarebbero tornati i miei genitori… Mi è parso che l’unica strada fosse ucciderlo e ritenevo seriamente che quella fosse la miglior soluzione anche per lui.

Il racconto del secondo omicidio

[…]

Nel mio tentativo di sfuggire alla solitudine, ho intravisto in Lorenzo Paolucci un possibile amico. La mattina di sabato 7 agosto mi sono alzato presto, verso le 6, come per altro mio solito: sono rimasto in casa a riordinare e a guardare la tv fin verso le l0.30, ora in cui Lorenzo mi ha chiamato dalla finestra. L’ho fatto entrare […] In quel momento mi è scattato come un sentimento di invidia che già altre volte avevo provato perché sentivo Lorenzo in qualche modo simile a me, ma al tempo stesso migliore e più fortunato.
Lorenzo era un po’ timido, proprio come me, ma lui gli amici li aveva e comunque mi pareva che se la cavasse meglio. Sotto l’effetto di questo sentimento, in un lampo, ho preso la decisione di colpirlo. Non è stata però solo l’invidia per Lorenzo a passarmi per la testa, ma anche un odio generico, non indirizzato verso di lui, ma verso tutti gli altri dai quali subivo senza reagire. Mi sono voltato, ruotando verso la mia destra e afferrando sul mobile una specie di forchettone infilato in un fodero di legno. Mi sono rivoltato mentre lui mi dava ancora le spalle, gli ho messo la mano sinistra sulla bocca e, con la destra, l’ho colpito da dietro, sul collo.

Ho sentito che al primo colpo uno dei due denti del forchettone si è piegato proprio a 90 gradi, sicché l’altro dente non è riuscito a penetrare in modo proporzionale alle mie aspettative e alla forza che avevo impiegato. Lorenzo ha cacciato un urlo lungo e acuto, si è buttato a terra e ha cominciato a lottare, mentre io continuavo a tenergli la mano sinistra sulla bocca… cercavo di colpirlo ancora, in quel momento il mio bersaglio era il collo perché mi sembrava il punto píú vitale. Non mi era facile perché Lorenzo si dibatteva e si difendeva, parando le braccia. Malgrado questo, sono riuscito a colpirlo.
Dopo questo secondo colpo, in un momento in cui non aveva la mia mano sulla bocca, calmo e senza urlare, mi ha detto: Luigi, perché mi vuoi ammazzare? Quella frase ha avuto il potere di fermarmi per un momento, poi è prevalsa la considerazione che non potevo tornare indietro. Sono andato in cucina e ho preso un coltello per gli affettati. Mi sono abbassato ancora su Lorenzo e l’ho colpito proprio al centro del collo.

È possibile che ci stava accanto a Chiatti non si sia mai accorto di nulla?

Prima di analizzare quello che accadde dopo, quindi i processi con le varie perizie, bisogna tentare di rispondere ad una domanda centrale. Assodati i traumi della prima infanzia è possibile accettare che chi è stato accanto a Luigi Chiatti non si sia mai accorto di nulla? I suoi genitori, il padre oltretutto era un medico, non hanno mai avuto sentore di quanto stava montando dentro il loro figlio? Anche da un punto di vista meramente pratico, logistico, è credibile che Luigi sia riuscito a collezionare così tanto materiale oggettivamente inquietante senza che nessuno in casa se ne accorgesse? Aveva mai dato segni di squilibrio, di difficoltà? E poi, quando la Polizia brancolava nel buio dopo il primo omicidio e diffondeva un identikit psicologico dell’assassino – giovane, con studi tecnici o di disegno, disoccupato, solitario – ai Chiatti non era sembrato di conoscere bene un tipo del genere?

Proseguendo con le indagini e gli interrogatori gli inquirenti accertano che c’erano stati diversi episodi, diversi momenti, in cui Luigi aveva mandato segnali quantomeno preoccupanti.

I primi segnali preoccupanti: infanzia e adolescenza

Un giorno una maestra che abita vicino ai Chiatti e con cui Luigi, all’epoca bambino, aveva un buon rapporto tanto da frequentare la sua casa, entra in classe e lo rimprovera davanti a tutti, perché ha saputo dai genitori che aveva l’abitudine di picchiare sua nonna. Chiatti racconterà in seguito questo episodio come primo gradino nella discesa verso la totale chiusura nei confronti del prossimo.

Crescendo sta sempre da solo, non ha amici, non esce. I genitori se ne accorgono e si rivolgono ad una psicologa. A Roma, non a Foligno, perché evidentemente non vogliono si sappia in giro che il figlio ha bisogno di aiuto. Luigi si reca dalla professionista solo qualche volta, a Processo lei racconterà che il giovane si era messo in cerca della sua madre naturale. Inoltre, iscritto all’Università di Perugia, viveva in un collegio da cui fu cacciato per via di alcuni piccoli furti.

Soprattutto, però, c’è quello che accadde nel 1990.

La famiglia Chiatti sta per partire per una vacanza e Luigi è chiuso a chiave in camera. Non vuole uscire. I genitori insistono. Improvvisamente esce, spinge il padre in bagno e lo chiude a chiave. Scende le scale e chiude la madre in uno stanzino nella porzione della casa adibita a studio del Dottor Chiatti. Entra in camera dei genitori, prende la Y10 del padre e parte. I genitori si liberano con l’aiuto di un vicino, Ermanno Chiatti si avvede che il figlio gli ha rubato portafogli e libretto degli assegni e aveva preso un piccolo televisore presente in casa. Entrati nella stanza di Luigi, i genitori vedono disposti sopra ad un tavolo indumenti e scarpe da bambino. Su una credenza c’è un gran numero di lamette da barba e saponette. Quindi la preparazione del Piano andava avanti da anni.

Ermanno Chiatti racconta queste cose alla Polizia un mese dopo il secondo omicidio. In sostanza, chiude la stalla quando i buoi sono scappati da un pezzo.

I genitori non potevano non sapere

A fronte di questo ultimo episodio diventa impossibile pensare che i coniugi Chiatti non avessero contezza della situazione problematica del figlio. Non la accettavano oppure non erano stati in grado di intervenire? Si può solo immaginare il dolore che anche loro abbiano provato a fronte delle azioni commesse da Luigi, bisogna però sottolineare che l’occasione di fermarlo in tempo l’avevano avuta, pur riconoscendo che fronteggiare questo genere di situazioni all’interno della famiglia è molto difficile. Anche perché secondo gli psicologi il primo meccanismo che si ingenera di solito in questi casi è quello della negazione.

Il suo obiettivo era badare ai bambini ed educarli

Dunque, il Piano era in preparazione da tempo, ma come si sarebbe sviluppato dopo la prima fase, ossia il rapimento? Luigi Chiatti spiega che la sua intenzione era quella di portare i bambini in un luogo isolato in provincia di Macerata per crescerli facendoli diventare degli adulti diversi dagli altri, che volessero avere a che fare con lui e non lo isolassero. Aggiunge di sentirsi perfettamente in grado di badare a dei bimbi e di educarli. Senza mai punirli, perché i bambini devono solo giocare ed essere educati attraverso il gioco. Li avrebbe portati a fare qualche gita, gli avrebbe insegnato qualcosa e li avrebbe in qualche modo civilizzati. Racconta di aver comprato tutto il materiale in centri commerciali fuori Foligno per non essere riconosciuto e di aver pensato ad un approvvigionamento annuale di cibo in scatola, per non avere problemi a livello di alimentazione.

“È come se Chiatti non si sentisse responsabile”

A fronte di ragionamenti del genere si ritiene inevitabile sottoporlo a perizia psichiatrica. In tutti i colloqui, siano con inquirenti o medici, mostra un’altissima considerazione di sé, dando l’impressione di avere più a cuore la descrizione delle sue difficoltà personali che un’analisi di quanto abbia commesso. Una volta commenta: il fatto è che sono troppo perfetto.

Il noto psichiatra Vittorino Andreoli commenta È come se Chiatti non si sentisse responsabile. Come se avesse avuto un credito con il mondo e toccasse a Giudici e Psichiatri farsi carico delle sue difficoltà e magari anche a risolverle. Secondo la sua prospettiva non ha commesso due omicidi, ma ha risolto in quel momento un proprio problema.

Chiatti si sentiva superiore

Chiatti si sente superiore. È metodico, preciso, è convinto che se in occasione del secondo omicidio non fosse stato costretto ad agire in fretta non lo avrebbero mai preso. Segue le indagini perché Mi faceva piacere essere al centro dell’attenzione. Viene sottoposto a praticamente tutti i Test di valutazione utilizzati in ambito di psichiatria, forense e non, fra cui il Minnesota Test: è strutturato in 567 affermazioni dette Items, per ognuna di queste la persona esaminata deve rispondere se la ritiene Prevalentemente Vera o Prevalentemente Falsa rispetto alla propria esperienza. In base alle risposte fornite viene effettuata una valutazione psicologica.

In Luigi Chiatti il test rivela propensione all’azione, comportamenti impulsivi e trasgressivi e chiusura ai rapporti interpersonali. Certifica inoltre che il Mostro di Foligno è una persona estremamente sicura di sé e del proprio agire, con contatti personali limitati, cosa che lo fa tendere a uno stato depressivo.

Il Test dell’Albero, invece, denuncia in lui una spiccata ipertrofia dell’Io, il Test di Rosenzweig acclara lo scarso adattamento sociale, il Test della Figura Umana certifica poi problematiche riguardanti la sfera sessuale, dal Test di Rorschach Vittorino Andreoli trae le indicazioni di una personalità disarmonica e infantile, di un pensiero poco definito, di un forte bisogno di valorizzazione narcisistica.

 Per i consulenti di parte Chiatti ha il disturbo Borderline

 Al termine di tutte queste valutazioni i Consulenti di Parte diagnosticano il Disturbo Borderline. Luigi Chiatti è in definitiva instabile, conflittuale, non regolato dal punto di vista emotivo, afflitto da una cronica sensazione di vuoto. Per i Consulenti di Parte Civile siamo di fronte ad un meccanismo di sdoppiamento alla base di manifestazioni di rabbia narcisistica.

Dai colloqui emerge nuovamente l’altissima considerazione di sé, il considerarsi speciale, superiore agli altri.

Andreoli sosterrà, scusandosi per l’utilizzo di un linguaggio difficilmente digeribile ma necessario, che Il bambino è per Chiatti un oggetto sessuale pulito. Ed è l’unico soggetto capace di unificare realtà e fantasia. Conclude poi che in ordine ai fatti commessi. Si ritiene senza colpa, assolto dal punto di vista morale.

Le sentenze in tribunale

 Al termine del Processo di Primo Grado Chiatti verrà ritenuto capace di intendere e di volere e condannato a due ergastoli. Per quanto sia argomento difficile e tecnico è doverosa una spiegazione estremamente semplificata a fronte di tutti questi disturbi emersi dai test e la considerazione di una capacità di intendere e di volere: si può essere malati di mente ma consapevoli di cosa si sta facendo, della volontà di farlo e delle conseguenze delle proprie azioni.

In Appello viene presentata una nuova relazione, stilata da specialisti diversi rispetto al Primo Grado, che certifica una Grave e profonda immaturità delle strutture di personalità. Sotto il profilo psichico – affettivo, maturativo, etico e sociale, Chiatti è come un bambino di tre o quattro anni. Di conseguenza, secondo i consulenti, al momento dei delitti non era nella pienezza delle sue facoltà mentali. Nonostante ciò il Pubblico Ministero chiede la conferma della pena comminata in Primo Grado.

Gli avvocati, che nei giorni dell’arresto erano stati minacciati per avere preso in carico la difesa del Mostro (i figli di uno dei due non gli parlarono per giorni), chiedono invece che venga considerato non imputabile o quantomeno affetto da vizio parziale di mente. La sentenza lo considera Parzialmente capace di intendere e di volere, riconsiderando la pena in 30 anni di reclusione seguiti da un ricovero in Casa di Cura per almeno tre anni, al termine dei quali dispone una nuova valutazione del condannato. Il 04 marzo 1997 la Cassazione conferma la condanna, Luigi Chiatti sconta la pena nel Carcere di Prato.

Colpevole e condannato a 30 anni di reclusione

Dal carcere scrive una lettera in cui si rivolge a Simone Allegretti come se fosse ancora vivo. Volevo solo darti tutto il mio amore, sostiene, e aggiunge che appena possibile andrà a fargli visita.

Sfruttando gli sconti previsti per legge termina la sua detenzione nel 2015 e, come previsto, viene trasferito in una REMS (Residenza per l’Esecuzione di Misure di Sicurezza), ossia in una di quelle strutture pensate per accogliere gli autori di reati che siano considerati infermi di mente e socialmente pericolosi. È l’ultimo gradino dell’evoluzione che, negli anni, è partita dai Manicomi Criminali passando poi per gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

Il trasferimento scatena polemiche roventi. La struttura si trova infatti in un piccolo centro della provincia di Cagliari, a pochi passi dalla scuola e dalla piscina frequentata dai bambini del paese. La cittadinanza è inferocita, indignata, soprattutto spaventata. Nel 2018 Chiatti scrive una lettera al giornale L’Unione Sarda:

La lettera di Chiatti all’Unione Sarda

Ciò che vorrei trasmettere è che, ancor oggi, nel loro ricordo, provo una forte sensazione di immenso dolore personale che mi strugge grandemente nel ricordo dal profondo del mio cuore, tanto da aver suscitato in questi lunghi anni tanti e tanti interrogativi, tra i quali il principale è se fosse giusto o no concedermi la possibilità di rinascere a vita nuova e, quindi, rientrare tra la gente in società, considerato il dolore presente, senza fine, che a causa mia si è determinato ed è presente nelle famiglie e in tante altre persone legate alle vittime. Mi dispiace, vi chiedo umilmente scusa con il cuore in mano.

[…]

Non vi chiedo di perdonarmi, so che è difficilissimo, ma per lo meno di concedermi di dare “un senso” al sacrificio delle due vittime. Io credo, anzi, sono oggi convinto, che anche da un evento così tragico si possa trarre qualcosa di positivo, dal male più profondo può emergere la luce, attraverso un processo di trasformazione e rinascita interiore della persona, ed è quello che è accaduto in questi anni.

Oggi, sono una persona molto diversa, che non si riconosce in quella descritta dai mass-media […]Prima di porre termine a questo mio scritto vorrei rassicurare, per quanto mi è possibile, le famiglie delle povere vittime. Oggi c’è una persona diversa ristretta, una luce non riconosciuta che vuole essere accolta semplicemente perché è luce, non è più negativa ma positiva, e che vuole tanto dare agli altri, trasmettere se stessa e dare un senso a tutto ciò che è avvenuto e che non doveva avvenire. Se potessi tornare indietro non rifarei mai quello che ho fatto perché ciò che ho fatto è distruzione della vita e disprezzo del creato. Scusatemi.

Epilogo: Chiatti continua ad essere considerato socialmente pericoloso

Negli anni precedenti, quando gli specialisti che lo esaminavano gli avevano domandato se, per ipotesi, trovatosi fuori dal carcere avrebbe commesso di nuovo fatti come quelli di cui si era macchiato aveva risposto una prima volta di sì, in un’altra occasione aveva detto Dipende.

In diversi altri casi di cui abbiamo parlato siamo stati costretti a raccontare scarcerazioni improvvise, sconti di pena esagerati, permessi premio concessi con eccessiva disinvoltura. Questa volta, per fortuna, non siamo chiamati a farlo. Dal 2015 in poi, infatti, il Tribunale ha sempre prorogato la misura di ricovero in REMS per Luigi Chiatti continuando a considerarlo socialmente pericoloso.

Perché se il Mostro di Foligno fosse libero di girare per le strade andrebbe in cerca di uno dei nostri bambini e lo farebbe ancora.

Edoardo Ciufoletti

Edoardo Ciufoletti è attore e autore teatrale. Da sempre studioso e appassionato di cronaca nera.