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Italia e guerra: cosa dice la legge

Il rapporto tra l’Italia e il concetto di guerra è profondamente esplicitato nella sua Costituzione, nata dalle ceneri del secondo conflitto mondiale e caratterizzata da un desiderio di pace e cooperazione internazionale.

L’assetto normativo che disciplina la partecipazione del nostro Paese a conflitti armati, l’eventuale chiamata alle armi e il ruolo della società civile è complesso e riflette un equilibrio delicato tra la sovranità nazionale e l’adesione a principi di diritto internazionale.

Oggi più che mai, è fondamentale comprendere il quadro legislativo per delineare la posizione dell’Italia di fronte a scenari di conflitto, soprattutto in questi ultimi anni caratterizzati da crisi geopolitiche, basti pensare alla guerra in Ucraina e la situazione tra Israele e Palestina e, recentemente, tra lo Stato ebraico e l’Iran.

Il ripudio costituzionale della guerra

Il principio cardine che orienta la posizione italiana in merito alla guerra è sancito dall’articolo 11 della Costituzione che, nella sua celebre formulazione, afferma che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Una disposizione che non è una mera dichiarazione di intenti, ma un vincolo programmatico che caratterizza l’intera politica estera e di difesa del Paese. Il ripudio della guerra come “strumento di offesa” significa che l’Italia non può avviare conflitti con l’obiettivo di aggredire altri Stati, espandere il proprio territorio o imporre la propria volontà politica con la forza. La guerra è esclusa come strumento di aggressione o come mezzo primario per risolvere dispute internazionali, e tale dicitura venne contemplata proprio in virtù di ciò che accadde durante il fascismo che fece della guerra non solo uno elemento esecutivo del ventennio ma anche un fattore forte di propaganda imperialista.

Le possibilità di intervenire per mantenimento della pace

Tuttavia, l’articolo 11 prosegue stabilendo che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Tale parte è essenziale per comprendere l’altro volto della dottrina italiana, legittimando la partecipazione del nostro Paese a organizzazioni sovranazionali come l’ONU e la NATO, e la possibilità di contribuire a missioni internazionali, anche militari, purché queste siano finalizzate al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, al contrasto di atti di aggressione o alla difesa collettiva.

Le missioni militari italiane all’estero, infatti, rientrano generalmente in questo quadro, configurandosi come operazioni di peacekeeping, di interposizione o di difesa preventiva, spesso sotto l’egida delle organizzazioni sopra citate, e non come atti di offesa.

Ruolo del Parlamento e del Presidente della Repubblica

La decisione di intraprendere azioni che possano condurre a uno stato di guerra non è lasciata all’arbitrio del potere esecutivo. L’articolo 78 della Costituzione attribuisce alle Camere il potere di “deliberare lo stato di guerra e conferire al Governo i poteri necessari”, in quanto massima espressione della volontà popolare, autorizzata a una decisione di tale portata. Si tratta di un atto di altissimo valore politico e istituzionale, che richiede un dibattito approfondito e una votazione in entrambe le Camere, garantendo che ogni eventuale ricorso alla forza sia espressione di un consenso democratico e non una prerogativa unilaterale del Governo.

Al Presidente della Repubblica, in qualità di Capo dello Stato e Comandante in Capo delle Forze Armate, spetta il ruolo di promulgare la legge che dichiara lo stato di guerra e di presiedere il Consiglio Supremo di Difesa e, essendo garante della Costituzione, deve vigilare affinché ogni azione delle Forze Armate sia conforme ai principi costituzionali e agli impegni internazionali assunti dall’Italia, supervisionando le operazioni militari.

La chiamata alle armi: dal servizio di leva alla professionalizzazione

Per decenni, la partecipazione dei cittadini alla difesa del Paese è stata garantita dal servizio militare di leva obbligatorio, con un sistema che prevedeva che tutti i giovani di sesso maschile, al raggiungimento della maggiore età, fossero chiamati a prestare un periodo di servizio nelle Forze Armate. L’idea sottostante era che la difesa della patria fosse un dovere civico condiviso, come sottolineato dall’articolo 52 della Costituzione: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”.

Tuttavia, con la Legge 23 agosto 2004, n. 226, è stata sospesa la leva obbligatoria a partire dal 1° gennaio 2005, e le Forze Armate italiane sono state “professionalizzate” e da questo momento in poi l’attuale sistema di difesa si basa su volontari, uomini e donne, che scelgono la carriera militare.

Ripristino leva obbligatoria solo in caso di necessità

Ma la legge in oggetto prevede sempre la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di grave crisi internazionale o di necessità di difesa della Patria. L’articolo 52 della Costituzione continua a stabilire che “il servizio militare è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge“, aprendo il campo alle eventuali decisioni del Parlamento, che se dovesse deliberare lo stato di guerra ai sensi dell’articolo 78, o in presenza di minacce eccezionali alla sicurezza nazionale, attraverso una legge ordinaria potrebbe reintrodurre il servizio di leva obbligatorio per tutti i cittadini idonei. In quel contesto, verrebbero richiamati alle armi gli uomini e le donne che rientrano nelle classi di età definite dalla legge, secondo criteri che sarebbero stabiliti per garantire l’equità e l’efficacia del reclutamento. La priorità, in un tale scenario, sarebbe quella di mobilitare le risorse umane necessarie per la difesa del territorio e degli interessi vitali del Paese.

Il ruolo dei civili

Oltre al personale militare in senso stretto, in uno scenario di guerra o di grave crisi nazionale, anche i civili svolgono un ruolo fondamentale, sebbene con funzioni diverse. Con la dicitura “difesa della Patria” dell’articolo 52 non si intende solo difesa in senso militare, ma include anche la resilienza dell’intera nazione, che si traduce nella mobilitazione di risorse civili a supporto dello sforzo bellico o della gestione dell’emergenza.

Tra le attività civili possiamo citare l’organizzazione di servizi di protezione civile, la mobilitazione di personale medico e sanitario per l’assistenza ai feriti, la gestione delle infrastrutture critiche (energia, trasporti, comunicazioni) per garantirne il funzionamento, e il supporto logistico.

Ciascuno dovrebbe contribuire con le proprie competenze

In quest’ottica le amministrazioni pubbliche, le imprese (ad esempio, convertendo la produzione) e la popolazione sarebbero chiamate a contribuire, ciascuna per le proprie competenze e capacità, al mantenimento della stabilità e al sostegno delle operazioni militari e civili.

Il diritto italiano prevede anche disposizioni in materia di requisizione di beni e servizi in caso di necessità pubblica urgente, inclusi gli scenari di guerra, a compensazione.

Pierfrancesco Palattella

Giornalista, Web Writer, Seo copy, fondatore di La Vera Cronaca

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