La crisi di governo è un’espressione ricorrente nel dibattito della politica italiana, spesso associata a momenti di incertezza e instabilità. Ma cosa significa realmente? In termini costituzionali, una crisi di governo si verifica quando viene meno il rapporto di fiducia che lega il Governo al Parlamento, elemento fondamentale della nostra forma di governo parlamentare, come stabilito dall’articolo 94, comma 1, della Costituzione italiana.
Questa perdita di fiducia comporta l’obbligo, per il Governo in carica, di rassegnare le dimissioni, aprendo a diversi meccanismi che variano a seconda delle singole situazioni e soprattutto dalle scelte del Presidente della Repubblica, la carica più importante di un sistema basato sul parlamentarismo, quale quello italiano.
In questo articolo parliamo di:
Le tipologie di crisi di governo
Le crisi di governo si distinguono principalmente in due categorie, ovvero parlamentari ed extraparlamentari.
Le prime si verificano quando la sfiducia al governo è manifestata esplicitamente da una o entrambe le Camere del Parlamento. Le ipotesi previste dalla Costituzione (Art. 94) sono la mancata concessione della fiducia iniziale, che ogni nuovo Governo, entro dieci giorni dalla sua formazione, deve ottenere presentandosi alle Camere attraverso una mozione motivata e votata per appello nominale. Se la fiducia viene negata, il Governo non può entrare in carica.
Altra fattispecie riguarda l’approvazione di una mozione di sfiducia che si esplicita quando almeno un decimo dei componenti di una Camera presenta tale mozione, che non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione. Se la mozione viene approvata a maggioranza assoluta, il Governo è obbligato a dimettersi.
Infine, il governo può decidere di porre la “questione di fiducia” su una sua proposta legislativa o su un emendamento, cosa che accade spesso nella nostra storia. Ciò significa che il voto su quella proposta diventa un voto sulla permanenza in carica del governo stesso. Se una o entrambe le Camere votano contro la proposta, il Governo cade.
Le crisi extraparlamentari
Sono le più frequenti nella storia repubblicana italiana e si verificano quando il governo rassegna volontariamente le dimissioni, anche senza un voto parlamentare esplicito di sfiducia.
Di solito, le crisi di governo che rientrano in questa categoria sono collegate a contrasti interni alla maggioranza, dovute a inconciliabili divergenze tra i partiti che sostengono l’esecutivo, o all’interno dello stesso partito del Presidente del Consiglio, che possono portare il Primo Ministro a ritenere che il rapporto fiduciario, sebbene non formalmente negato dal Parlamento, sia di fatto venuto meno.
Oppure anche per criticità in merito alla correttezza istituzionale, specialmente in alcune ipotesi, come l’elezione di un nuovo Presidente della Repubblica o il rinnovo delle Camere a seguito di elezioni politiche, con il governo in carica che può rassegnare le dimissioni per prassi consolidata, pur non essendo obbligato dalla Costituzione. Questo avviene per consentire al nuovo Capo dello Stato o al nuovo Parlamento, espressione di una nuova volontà popolare, di ridefinire il quadro politico.
È importante sottolineare che il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una semplice proposta del governo (che non sia una questione di fiducia) non comporta l’obbligo di dimissioni, una distinzione fondamentale per evitare che ogni disaccordo su una singola misura degeneri in crisi di governo, anche se spesso le opposizioni le richiedono a gran voce.
Il ruolo del Presidente della Repubblica
Nella gestione delle crisi di governo, il Presidente della Repubblica assume un ruolo di fondamentale importanza, agendo come garante della Costituzione e della continuità dello Stato. I suoi poteri, pur non essendo di indirizzo politico attivo, sono centrali per la risoluzione della crisi.
Quando un Governo rassegna le dimissioni, il Presidente del Consiglio si reca al Quirinale per formalizzare l’atto, con il Presidente della Repubblica che, per prassi, accetta le dimissioni “con riserva”, invitando il Governo dimissionario a rimanere in carica per il “disbrigo degli affari correnti“, continuando quindi a svolgere le funzioni essenziali per la gestione ordinaria del Paese, ma senza intraprendere atti di indirizzo politico di vasta portata o decisioni irreversibili, salvo casi di urgenza o necessità improrogabile.
Successivamente, il Capo dello Stato avvia le consultazioni, un’altra prassi costituzionale non esplicitamente prevista dalla Costituzione, ma ormai consolidata e irrinunciabile. Egli riceve al Quirinale, in ordine di importanza protocollare i Presidenti della Camera e del Senato, i rappresentanti dei gruppi parlamentari (con i capigruppo e i presidenti dei partiti che li compongono), e, in alcuni casi, personalità eminenti come gli ex Presidenti della Repubblica. L’obiettivo delle consultazioni è duplice: da un lato, prendere atto del venir meno della fiducia parlamentare, dall’altro, sondare il panorama politico per verificare l’esistenza di una nuova maggioranza in grado di sostenere un governo e di svolgere la sua attività politica. Durante questi incontri, i rappresentanti delle forze politiche espongono le proprie posizioni, le possibili alleanze e le eventuali disponibilità a formare un nuovo esecutivo.
La risoluzione della crisi di governo
Al termine delle consultazioni, il Presidente della Repubblica ha diverse opzioni per tentare di risolvere la crisi.
Se dalle consultazioni emerge una chiara maggioranza e una figura individuata come potenziale Presidente del Consiglio, il Capo dello Stato conferisce l’incarico di formare il nuovo Governo. L’incaricato può accettare subito l’incarico o, più frequentemente, accettare “con riserva“, consentendogli di avviare un proprio giro di consultazioni con le forze politiche per verificare concretamente la solidità della maggioranza e la composizione dell’esecutivo. Se l’esito è positivo, l’incaricato scioglie la riserva, presenta la lista dei ministri al Presidente della Repubblica e, una volta ottenuta la nomina, il governo si presenta alle Camere per il suddetto voto di fiducia.
Se invece le consultazioni non producono indicazioni nette e il quadro politico è incerto, il Presidente della Repubblica può affidare un “mandato esplorativo” a una figura istituzionale (spesso il Presidente della Camera o del Senato, o un politico di alto profilo ma non direttamente coinvolto nella crisi). Il titolare del mandato esplorativo ha il compito di verificare la disponibilità delle forze politiche a formare una maggioranza e a individuare un Presidente del Consiglio, riportando poi l’esito al Quirinale
Meno frequente e non codificato, il pre-incarico è una fase intermedia in cui il Presidente della Repubblica può chiedere a una personalità di effettuare delle verifiche preliminari sulla fattibilità di un nuovo governo, senza che ciò costituisca ancora un incarico formale.
Infine, in rari casi, il Quirinale può decidere di non accettare le dimissioni del governo e di rinviarlo alle Camere per un nuovo voto di fiducia. Questa opzione è esercitata solo se il Capo dello Stato ritiene che la crisi non sia profonda o che l’esecutivo possa recuperare la fiducia parlamentare.
Nuovo governo o elezioni anticipate
La crisi di governo può risolversi in vari modi, ciascuno con implicazioni diverse per la stabilità politica del Paese.
La formazione di un nuovo governo è l’esito più comune e preferibile in un sistema parlamentare. Dopo l’incarico e il voto di fiducia, si forma un nuovo esecutivo che può essere un governo politico, basato su una maggioranza politica frutto di elezioni o di nuove alleanze parlamentari, un governo tecnico, composto da esperti non necessariamente legati a partiti politici, nominato in situazioni di emergenza o per obiettivi specifici, godendo spesso di un ampio consenso trasversale, o un governo di scopo o “istituzionale”, guidato da una figura super partes, con obiettivi limitati e temporanei, spesso volti a riforme urgenti o al raggiungimento della fine della legislatura.
Se invece il Presidente della Repubblica constata l’impossibilità di formare un governo che possa ottenere la fiducia parlamentare, o se ritiene che non vi siano le condizioni politiche per superare la crisi con un nuovo esecutivo, può esercitare il potere di sciogliere le Camere secondo l’articolo 88 della Costituzione.
Questo comporta la fine anticipata della legislatura e l’indizione di nuove elezioni politiche. Il Presidente della Repubblica non può esercitare questa facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato (il cosiddetto “semestre bianco“), a meno che questi non coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura. In questo caso, il Governo dimissionario rimane in carica per il già citato disbrigo degli affari correnti fino alla formazione del nuovo esecutivo post-elettorale.