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Divorzio in Italia: legge, storia e iter

Il divorzio, istituto giuridico che, come tutti sappiamo, sancisce lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, rappresenta un elemento fondamentale del diritto di famiglia moderno.

In Italia, la sua introduzione e successiva evoluzione sono state il frutto di un lungo e complesso percorso storico, sociale e legislativo, che ha visto il nostro Paese adeguarsi progressivamente ai cambiamenti culturali e alle esigenze dei cittadini. Dal divieto assoluto all’introduzione “combattuta” e al famoso referendum del 1974 fino alle recenti semplificazioni, il divorzio rappresenta al meglio la capacità del sistema giuridico di adattarsi alle dinamiche della società.

La storia del divorzio

Per gran parte della sua storia, l’Italia, profondamente influenzata dalla tradizione cattolica e dalla presenza dello Stato Pontificio, non ha contemplato il divorzio nel proprio ordinamento civile. L’indissolubilità del matrimonio era un principio cardine, e l’unica possibilità per porre fine a un’unione era l’annullamento religioso da parte dei tribunali ecclesiastici, i cui effetti civili erano riconosciuti dallo Stato. I primi tentativi di introdurre il divorzio si ebbero già nel XIX secolo, ma furono sempre osteggiati e fallirono.

La svolta decisiva avvenne con la Legge 1° dicembre 1970, n. 898, nota come “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio“, frutto di un acceso dibattito politico e sociale, che consentì per la prima volta in Italia lo scioglimento del matrimonio civile e la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, introducendo per l’appunto il divorzio. La sua approvazione non fu indolore: nel 1974, come detto in precedenza l’Italia fu protagonista di un referendum abrogativo sulla legge sul divorzio, che vide una netta vittoria del “no” all’abrogazione, confermando la volontà popolare di mantenere il divorzio

L’evoluzione della normativa

Dall’introduzione del 1970, la legge sul divorzio ha subito diverse modifiche, volte a renderla più efficiente e rispondente alle mutate esigenze sociali. La riforma più significativa, prima delle recenti semplificazioni, è stata la Legge 6 maggio 2015, n. 55, comunemente nota come “Legge sul divorzio breve“, che ha ridotto in modo concreto i tempi necessari per ottenere il divorzio dopo la separazione legale. I termini di separazione, che in precedenza erano di tre anni per la separazione consensuale e cinque per quella giudiziale, sono stati ridotti a sei mesi in caso di separazione consensuale e a dodici mesi in caso di separazione giudiziale, con l’obiettivo chiaro di velocizzazione le procedure e di ridurre il disagio per i coniugi e, soprattutto, per i figli.

Alternative al tribunale

Ulteriori semplificazioni procedurali sono state introdotte per deflazionare il carico giudiziario e offrire alternative ai procedimenti in Tribunale. Tra queste, spiccano la negoziazione assistita e il divorzio in Comune. La prima permette ai coniugi di raggiungere un accordo di divorzio (o separazione) con l’assistenza obbligatoria di almeno un avvocato per parte, senza la necessità di passare per l’aula di tribunale, salvo il successivo nulla osta o autorizzazione del pubblico ministero. Il secondo, invece, è una procedura ancora più snella, gestita direttamente di fronte all’ufficiale di stato civile, ma è riservata ai casi in cui i coniugi non abbiano figli minori, maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave, né figli maggiorenni non autosufficienti economicamente, e non vi siano accordi di trasferimento patrimoniale (solo assegno di mantenimento).

L’iter per il divorzio

In Italia, il divorzio non può essere chiesto immediatamente dopo la crisi coniugale. È necessario che i coniugi siano precedentemente passati per una separazione legale, che può essere consensuale (se i coniugi trovano un accordo su tutti gli aspetti, da omologare in Tribunale) o giudiziale (se non c’è accordo e si rende necessaria una sentenza del Tribunale). La separazione non scioglie il vincolo matrimoniale, ma ne sospende gli effetti, ponendo fine alla comunione materiale e spirituale dei coniugi, e permettendo loro di vivere separatamente senza violare i doveri coniugali.

Come accennato, la Legge sul divorzio breve del 2015 ha ridotto i termini perentori minimi di separazione necessari per poter presentare la domanda di divorzio: sei mesi dalla comparizione dei coniugi davanti al presidente del Tribunale, in caso di separazione consensuale o senza opposizione; dodici mesi dalla comparizione, in caso di separazione giudiziale.

L’obiettivo di questa fase preliminare è duplice: offrire ai coniugi un periodo di riflessione e possibile riconciliazione, e permettere di disciplinare provvisoriamente gli aspetti fondamentali della vita separata, come l’affidamento dei figli e il loro mantenimento.

Divorzio congiunto e giudiziale

Una volta trascorsi i termini della separazione, i coniugi possono intraprendere una delle due vie principali per ottenere il divorzio: il divorzio congiunto o il divorzio giudiziale.

Divorzio congiunto o consensuale

Il primo, chiamato anche divorzio consensuale, è la procedura preferibile e più rapida, purché i coniugi abbiano raggiunto un accordo su tutte le condizioni relative allo scioglimento del matrimonio, tra cui l’affidamento e il mantenimento dei figli (minori e maggiorenni non autosufficienti), l’assegnazione della casa familiare e l’eventuale assegno divorzile per il coniuge economicamente più debole.

L’iter prevede il deposito di un ricorso congiunto in Tribunale, firmato da entrambi i coniugi e dai rispettivi avvocati (o da un unico avvocato che li assista entrambi). Il Tribunale, in una singola udienza presidenziale, verifica la volontà delle parti e la conformità dell’accordo alle norme di legge e, in presenza di figli minori, maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave, accerta che l’accordo tuteli adeguatamente i loro interessi. Se l’accordo è regolare e nell’interesse dei figli, il Tribunale lo omologa con sentenza, dichiarando lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Divorzio giudiziale o contenzioso

Quando i coniugi non riescono a trovare un accordo sulle condizioni del divorzio, si rende necessario ricorrere al divorzio giudiziale o contenzioso, una procedura più complessa, lunga e costosa. Il coniuge che intende divorziare deve depositare un ricorso in Tribunale, notificando l’atto all’altro coniuge. Segue un’udienza presidenziale, durante la quale il Presidente del Tribunale tenta una conciliazione tra le parti. Se la conciliazione fallisce, il Presidente emana provvedimenti provvisori e urgenti per regolare i rapporti tra i coniugi e con i figli (ad esempio, l’assegnazione della casa familiare, l’affidamento e il mantenimento dei figli). Il procedimento prosegue poi con una fase istruttoria, durante la quale vengono acquisite prove e testimonianze per dirimere le questioni controverse (come l’addebito della separazione, la quantificazione dell’assegno divorzile, ecc.). La procedura si conclude con una sentenza del Tribunale che decide su tutte le questioni pendenti e dichiara lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Assegno, figli e casa

Indipendentemente dalla via scelta, il divorzio comporta la necessità di regolare aspetti fondamentali della vita degli ex coniugi e dei figli.

Assegno divorzile

L’assegno divorzile è una somma di denaro che il giudice può stabilire che un coniuge versi all’altro, che non è automatico, ma viene concesso se il coniuge richiedente non ha mezzi adeguati o non può procurarseli per ragioni oggettive, e se il matrimonio ha causato un grave squilibrio economico. La Corte di Cassazione ha ridefinito i criteri per la sua determinazione, valorizzando non solo il principio assistenziale ma anche quello compensativo e perequativo, tenendo conto del contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale, nonché della durata del matrimonio.

Affidamento dei figli

L’affidamento dei figli è un altro aspetto come detto centrale. La legge italiana privilegia l’affidamento condiviso, con entrambi i genitori che mantengono la responsabilità genitoriale e il diritto di prendere decisioni importanti per i figli. Solo in casi eccezionali, quando l’affidamento condiviso sia contrario all’interesse del minore (ad esempio, per condotte gravi di un genitore), si può optare per l’affidamento esclusivo a un solo genitore. Contestualmente all’affidamento, viene stabilito un assegno di mantenimento a carico del genitore che non vive prevalentemente con i figli, destinato a coprire le loro esigenze ordinarie e straordinarie.

Assegnazione della casa familiare

Infine, l’assegnazione della casa familiare viene di norma disposta a favore del genitore cui sono affidati i figli, al fine di garantire a questi ultimi la continuità dell’ambiente di vita e può avvenire anche se la casa è di proprietà esclusiva di uno dei coniugi o di terzi.

Pierfrancesco Palattella

Giornalista, Web Writer, Seo copy, fondatore di La Vera Cronaca